Il caso Ciro Grillo ha riacceso il dibattito su garantismo e giustizialismo nel M5S, mettendo in luce una contraddizione profonda tra principi invocati e pratiche politiche.
Garantismo e giustizialismo nel M5S come cifra politica
La vicenda giudiziaria che coinvolge Ciro Grillo ha riaperto un dibattito profondo e scomodo sul rapporto tra giustizia, politica e coerenza morale. Non tanto per gli aspetti processuali — che spettano esclusivamente ai tribunali — quanto per il modo in cui il caso è stato raccontato e difeso nello spazio pubblico, in particolare dal padre Beppe Grillo.
Nel rivendicare per il figlio il principio di presunzione di innocenza, Grillo ha richiamato un garantismo che, sul piano dei diritti, è pienamente legittimo e condivisibile. Tuttavia, proprio questa difesa ha fatto emergere una contraddizione difficilmente eludibile: lo stesso garantismo è stato spesso negato, in passato, a numerosi avversari politici, esposti alla gogna mediatica anche in presenza di semplici avvisi di garanzia.
Il giustizialismo come cifra politica
Per anni il Movimento 5 Stelle ha costruito una parte consistente della propria identità su una retorica fortemente giustizialista. La distinzione tra indagato e colpevole è stata più volte ignorata nel discorso pubblico, alimentando una narrazione “manettara” che identificava la questione morale con l’azione penale, spesso prima ancora di qualsiasi giudizio.
Questo approccio ha contribuito a legittimare un clima di sospetto permanente e di delegittimazione politica, in cui il processo mediatico precedeva quello giudiziario. Alla luce di ciò, il garantismo rivendicato oggi appare a molti come selettivo, applicato con rigore solo quando a essere coinvolti sono i propri affetti o il proprio campo politico.
Linguaggio pubblico e responsabilità culturale
Accanto al tema giudiziario, il caso riporta al centro anche una questione culturale più ampia: il linguaggio utilizzato da figure pubbliche e l’esempio che esso trasmette. Nel dibattito sono tornate alla memoria alcune frasi sessiste pronunciate in passato da Beppe Grillo nei confronti di Laura Boldrini, frasi che suscitarono forti critiche per il loro contenuto e per il ruolo pubblico di chi le pronunciava.
Il linguaggio non è mai neutro. Quando proviene da leader politici o mediatici, contribuisce a costruire un clima culturale, a normalizzare atteggiamenti e a legittimare forme di aggressività verbale che finiscono per riverberarsi nella società. In questo senso, il problema non è solo ciò che si dice, ma chi lo dice e con quale responsabilità.
Coerenza, credibilità e doppio standard
Il nodo centrale non è stabilire colpe o innocenze — compito che spetta esclusivamente alla magistratura — ma interrogarsi sulla coerenza tra i principi proclamati e le pratiche adottate nel tempo. Il garantismo non può essere a geometria variabile: o è un valore universale, valido per tutti, oppure diventa uno strumento retorico privo di credibilità.
Il caso Ciro Grillo mette dunque in evidenza una frattura profonda tra moralismo politico e diritti fondamentali, tra indignazione selettiva e rispetto delle garanzie costituzionali. Una frattura che non riguarda solo un singolo movimento, ma il modo in cui la politica italiana ha spesso utilizzato la giustizia come arma di lotta.
Una riflessione necessaria
Se questo caso può avere un senso che va oltre la cronaca, è quello di costringere a una riflessione più matura sul rapporto tra politica, giustizia e linguaggio pubblico. Senza tifoserie, senza doppi standard, senza trasformare il garantismo in un privilegio riservato a pochi.
Solo così è possibile restituire credibilità al dibattito pubblico e ricondurre la giustizia nel suo perimetro naturale: quello dei tribunali, non delle piazze mediatiche.
Il nodo tra garantismo e giustizialismo M5S resta aperto e chiama in causa la credibilità stessa del dibattito pubblico e politico italiano.





































