Oltre mille anni di storia. Prima il miele, poi il cioccolato
Ricostruire la storia del dolce sardo è un’impresa titanica e per certi versi impossibile, dal momento che la storiografia ufficiale riporta poche note sull’argomento e spesso, lo relega ai margini della “Grande Storia”, che invece – come noto – incentra i trattati prevalentemente su aspetti sociali, politici ed economici. Inoltre, la storia culinaria della Sardegna risente di una carenza di documenti scritti particolarmente importante per ciò che riguarda le epoche più antiche e primitive. Eppure, con fatica e col rischio di incorrere in qualche madornale errore logico e cronologico, è possibile farsi un’idea grossolana su come e quando, i sardi, il popolo nobile che abita la sua terra da millenni, abbia scelto di addolcire i suoi pasti ed introdurre uno dei più grandi amici dei buongustai e di chi non riesce a rinunciare ai piaceri di gola. Sebbene la medicina moderna e in particolare la dietologia, abbia deciso di relegare il dolce, al ruolo di nemico quasi assoluto della salute umana, la persistenza di questi prodotti nella alimentazione dei sardi, e la diffusione sempre più massiccia delle dolcerie sarde nel palmares internazionale delle più ricercate pasticcerie per prelibatezza, qualità e originalità , è chiaro che il dolce sardo ha ancora davanti a se una lunga e salubre vita.
LE PRIME RICETTE SCOPERTE SULLE TAVOLETTE DI PIETRA
Non si sa quando gli antichi sardi abbiano cercato di migliorare il gusto dei cibi di cui si nutrivano aggiungendo sostanze dolci, spezie, frutta secca, oppure uova o grassi di vario genere. Nell’Antico Egitto già si trovavano (vedi le decorazioni della tomba del Faraone Ramsete III) forni per la produzione di pane e dolci sacri, confezionati con miele, latte, uva e datteri, indici di una tecnica dolciaria già avanzata (Simona Valtorta); gli Ebrei (noti per la loro golosità ) nel frattempo, già cucinavano uno dei piatti principali del seder (la grande cena pasquale ebraica) il charoset, ottenuta mescolando nocciole e fichi secchi tritati, arance, miele e vino; i Greci invece cospargevano le focacce con semi di sesamo, mentre i Romani scoprivano e valorizzavano il miele, magari unito alla ricotta e alla frutta secca, aromatizzando il tutto col finocchio selvatico (per non parlare della prelibatissima torta di ceci). Ai Sardi infine (ma non ultimi), toccava affidare il segreto della loro fattura alle tavolette di pietra in cui i nomi dei dolci, divenuti poi tipici di ogni specifica zona, riproducevano il linguaggio dei sentimenti (Bandinu): Amarettos, Papassinos, Aranzadas, Pistokkeddos, Ciambellas, Marigosos, Corikkeddos, Su Gattò De Mendula, Durke De Mendula, Durke De Nizzola, Durke De Nuke, Ruvidos, Casadinas, Guelfos e infine Su Pistiddu (con le sue trame della seduzione).
IL MIELE AL POSTO DELLO ZUCCHERO
In epoca antica dunque non si conosceva lo zucchero e il miele era la principale sostanza utilizzata come dolcificante. In Sardegna come in tutta l’area mediterranea ne esisteva una vasta gamma di varietà aromatiche, che corrispondevano alle fioriture su cui le operose api facevano saccoccia. Oltre al miele ovviamente si faceva consumo di frutti già catalogati tra i dolciumi, come fichi secchi (mentre rarissimi rimasero i datteri) una prassi di conservazione e di consumo del diffusissimo frutto selvatico che rimase intatta da allora fino ai giorni nostri, collocandosi di volta in volta in vari momenti di consumo: al mattino come eccezionali fonti di energie e a fine pasto come dessert.
GLI ARABI PORTANO PROFUMARONO I DOLCI
A seguito dei saccheggi saraceni sulle coste sarde, piaga che iniziò in epoca antica ma persistette fino all’età moderna inoltrata, gli antichi sardi conobbero ingredienti nuovi da aggiungere alla composizione dei primi dolci, come i pinoli, i pistacchi e soprattutto la canna da zucchero, sebbene rimase ancora a lungo prodotto di importazione e si rimandò ad epoche successive il suo impianto e la sua coltivazione sistematica in terra sarda. Gli arabi portarono in seguito altri ingredienti che contribuirono a profumare i dolci e a cambiarne aspetto e sapore rispetto alle più antiche lavorazioni, tra questi ricordiamo il gelsomino, l’anice, il sesamo, la cannella e lo zafferano.
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NEL MEDIOEVO I MONACI COLTIVANO MIELE E CERA D’API
L’uso del miele rimase comunque costante anche durante il medioevo soprattutto grazie all’attività dei monaci che furono gli inventori della prima pasticceria secca. Nei monasteri infatti si continuò anche durante il medioevo a preparare dolci a base di miele, visto che loro stessi erano noti allevatori di api. Dal prezioso insetto ottenevano infatti la cera per la fabbricazione delle candele: non a caso, ancora durante il Rinascimento i fabbricatori di dolci e i fabbricanti di candele facevano parte di una stessa corporazione. Il miele sardo però già assumeva da allora una tipicità assoluta, grazie alla specificità floreale dell’isola la quale offriva una fioritura alternata, accanto alla mitezza dei luoghi che davano alle api il terreno ideale per bottinare in ogni stagione. Il miele sardo cominciò così ad avere una gran varietà : quello di corbezzolo, di cardo, di asfodelo, di rosmarino e di castagno. Quello di eucalipto invece, sarà l’ultimo miele sardo ad essere prodotto, quando, le piantagioni dell’albero nei primi decenni del XX secolo divennero massicce e tali da modificare l’offerta di impollinazione alle instancabili api.
Intanto, seppur a gran rilento, nel medioevo la vita sociale e politica si evolvette anche in Sardegna, in particolare in alcuni centri dell’isola, come Cagliari, Oristano, Sassari e Tempio Pausania. Qui arrivavano a ondate successive le prime ventate di cambiamento provenienti dal Nord Europa e dalla penisola italiana, dove i fabbricanti di dolci aprivano le loro botteghe al pubblico e gli artigiani del dolce lavoravano per le corti dei potenti. Nacquero così le abitudini di consumare e confezionare dolci per gli eventi nunziali.
NASCE LA CARAPIGNA
Intanto ad Aritzo e in alta montagna già erano diventate una costante le preparazioni, il consumo e il commercio del primo gelato sardo. Se infatti, la storiografia ufficiale individua i toscani come i primi maestri gelatai della storia che durante il Rinascimento cominciarono a fabbricare i primi gelati, non molto differenti da quelli attuale e, gli stessi “inventori”, provvedevano ad esportare la loro maestria in tutta Europa, da Parigi fino alla Sicilia e a Napoli (che variegarono la produzione altri derivati del gelato, come i sorbetti allungati col liquore o le granite che al ghiaccio prevedevano l’aggiunta degli sciroppi), una storiografia più attenta e meno politicizzata ha certificato che già in Sardegna, durante la dominazione spagnola e aragonese si fabbricava il gelato, e precisamente il gelato al limone. Ad Aritzo (Nu) infatti, uno dei pochi paesi dell’isola a cui fu concesso di amministrarsi con un rappresentante del luogo, scelto tra gli aritzesi stessi, era rinomato per la produzione e il commercio della neve che veniva raccolta in apposite neviere – la più importante, fu quella di Funtana Cungiada ma anche Genna ‘e Crobu, Sa Serra – e si adoperava nella stagione calda per raffreddare cibi e bevande. La neviera poteva essere una grotta che in inverno veniva riempita di neve, ricoperta di paglia e felci e tenuta a temperatura più bassa possibile sino all’estate. La procedura prevedeva poi che la neve – divenuta ghiaccio – venisse tagliata in blocchi, riposta in grandi scatole di legno, e portata nei vari mercati della Sardegna dagli ambulanti aritzesi. Quest’attività rimase fiorente fino al secondo dopoguerra del ‘900 dopo di che, l’arrivo degli elettrodomestici moderni (frigo e freezer) anche nelle case degli aritzesi la fece scomparire del tutto. Oggi rimangono da visitare i siti dove si trovavano le neviere e, per gli anziani, il sapore della Carapigna, un gelato di produzione aritzese a base di ghiaccio tritato con l’aggiunta di limone o zucchero che si commerciava proprio nelle antiche sagre della Sardegna, tra cui la famosissima “parada de is carapigneris” a cui partecipavano tutte le cittadinanze comprese le autorità del sindaco e del parroco. L’industria della neve fu dunque una vera e propria risorsa economica per il paese, tanto che il sistema di produzione e di commercializzazione fino all’ambulante era appaltato ad apposite società e per lo smercio nelle piazze si pagavano fortissimi dazi e tasse di concessione allo Stato.
LA PASTA SFOGLIA NATA DA UNA DIMENTICANZA DEL BURRO IN LAVORAZIONE
L’evoluzione della produzione dolciaria continua senza sosta man mano che si evolvono le tecniche e si sperimentano nuove pietanze. Succede così che pure la Sardegna conosce nel XVIII secolo la pasta sfoglia, scoperta per puro caso da un pastaio mantovano un secolo prima che mentre stava impastando alcuni dolci, si accorse di essersi dimenticato di unire la prescritta dose di burro. Pensò quindi di aggiungerlo, ma ormai aveva impastato la farina. Lo aggiunse man mano e manipolò bene l’impasto. Terminata la cottura dell’impasto, si accorse di avere ottenuto dei dolci molto friabili, formati da una pasta sottilissima e sfogliata. In Sardegna barbaricini furono tra i più abili lavoratori di dolci a base di pasta sfoglia. Inventarono tra l’altro le notissime Caschettes tipico dolce di Belvì (Nu) fatto con sottilissima sfoglia di pasta ripiena di miele, nocciole tostate e tritate, cannella e buccia d’arancia.
IL CIOCCOLATO SOLO COI SABAUDI
Passa il tempo, passano i secoli e il commercio di materie prime provenienti dal Nuovo Continente investe sempre di più l’Europa e la cucina si adegua misurandosi in nuove combinazione di ingredienti. Tra nuovo e vecchio ecco spuntare pure in Sardegna – ma siamo già in piena Età Moderna con i Sabaudi che regnano a pieno titolo sui sardi – il cioccolato. In America Centrale gli Atzechi, i Maya e i Toltechi, coltivavano già da secoli l’albero di cacao, accompagnando la procedura a riti particolari che prevedevano, prima della semina, l’esposizione ai raggi della luna, dei migliori favi di cacao. In Europa la rivoluzione dolciaria che segna una svolta epocale con l’ingresso del cacao nella lavorazione dei cibi dolci avviene solo con la Rivoluzione Industriale, quando il prodotto viene coltivato, raccolto e venduto in maniera sistematica e seriale attraverso una catena di produzione quasi industriale. In Italia il primo grande produttore di dolci a base di cacao fu l’aristocratica Torino. A Torino i pasticceri intuirono come la combinazione dell’amarissimo cacao con il dolcissimo zucchero potesse sdoganare tra i palati della massa, questo nuovo alimento che fino ad allora non aveva riscosso grande apprezzamento. Per primo lo stesso Cristoforo Colombo che lo usò come merce di scambio con gli indigeni – “pecunia non olet” – ma che non ne fu grande estimatore. Fiorentini e Olandesi intuirono il business e fecero a gara a chi vendeva più cacao, che stavolta la definizione del botanico Linneo “Theobroma Cacao”, cibo degli dei, poteva essere convalidata. Nel 1678 a Torino la Casa Reale Sabauda, autorizza la vendita della cioccolata ” e nel 1865, il torinese Caffarel aggiunse al cacao le nocciole inventando i giandujotti. Nascono le prime fabbriche di cioccolato: Caffarel, Majani, Pernigotti, Venchi e Talmone. Seguono: Perugina, Novi, Peyrano, Streglio, Unica e Ferrero. L’uso del cioccolato si espanse in fretta anche in Sardegna, grazie ai gesuiti, che ne praticavano il commercio e adottarono l’usanza di consumare una tazza di cioccolata dopo la messa. Agli inizi dell’Ottocento, il cioccolato si può assumere ancora sotto forma liquida e sempre a Torino, si inventa una tecnica che permette di solidificare il cacao, combinandolo con vaniglia, acqua e zucchero. Il cioccolatino a forma di spicchio, il primo a essere incartato e diventato presto un’icona dell’arte cioccolatiera. In Sardegna però il consumo del cioccolato è ridottissimo: solo nelle tavole dei ricchi, in qualche locale pubblico di Cagliari e, come detto, nei monasteri gesuiti, dove il cibo degli dei è alla portata di palato.
IL TORRONE: A METÀ ‘800 TONARA DIVENTA CENTRO DI PRODUZIONE
Sempre a metà dell’800 inizia in Sardegna la produzione del torrone (Tonara). I torronai detti “sos torronargios” vendevano il prodotto lavorato in casa dalle donne – forse riprendendo una tradizione introdotta dagli spagnoli, dagli arabi e, secondo alcune ricostruzioni documentate negli archivi, dagli Antichi Romani che a loro volta la appresero dai Sanniti – usando un grande secchio in rame, il pajolo detto in gergo “su gheddargiu” all’interno del quale si metteva il miele che veniva fatto sciogliere per ore fino ad ottenere “sa moriga“. Per mescolare si utilizzava un legno di erica o di corbezzolo, mentre il fuoco si accendeva bruciando l’agrifoglio, noto in cucina perché non produceva fumo durante la combustione. A fuoco spento si aggiungevano gli albumi, quindi il succo di limone e poi la frutta secca: “turrone de mendula“(torrone di mandorle), “turrone de linzola“(torrone di nocciole), “turrone de coccoro“(torrone di noci). Durante le feste paesane e le sagre da allora fino ad oggi, era possibile acquistarlo sfuso da “sos torrongianos”, che con una mannaia tagliano a pezzi il torrone.
RIVOLUZIONE INDUSTRIALE: ARRIVA LO ZUCCHERO
Con l’inizio della produzione industriale del cioccolato, che in Sardegna si ottimizza solo nella seconda metà degli anni ’70, con le prime lavorazioni delle uova di pasqua. È così che eccellenti pasticcerie presenti un po’ in tutte le province, alcune di esse, in grado di esportare pure nel continente italiano, segue l’uso massiccio dello zucchero, entrato ormai in sostituzione quasi totale del miele nella lavorazione dei principali dolci sardi, torrone compreso. Rimangono tuttavia linee di produzione più tradizionali e con livelli di qualità superiore che però vanno ad occupare nicchie di mercato. Rimane la produzione casalinga e occasionale, mentre, la crescente domanda di prodotto, con i tempi di lavorazione ridotti al minimo al fine di produrre e vendere il possibile secondo una scala industriale favorisce – negli anni ’80 – la nascita di vere e proprie aziende dolciarie. Lo zucchero diventa quindi ingrediente centrale assieme alle farine bianche, alle marmellate industriali e ai vari correttori chimici che “raddrizzano” il sapore secondo gusti più omologati dal grande pubblico. È così che, nell’elencazione dei dolci sardi compare il cosiddetto “confetto“, ottenuto ricoprendo di zucchero e di creme di liquori mandorle e nocciole. In Sardegna il confetto diventa subito sinonimo di eleganza da portamento nunziale e raramente figura come alimento vero e proprio. E per la creatività dei pasticceri sardi questa libertà interpretativa diventa occasione per sbizzarrire la loro originalità , andando a soddisfare anche con questo prodotto, nuove fette di mercato.