La rivoluzione dell’agricoltura e dell’allevamento si è fermata a metà a strada
L’agricoltura in Sardegna ha rappresentato storicamente un perno dell’economia di sostentamento di tutte le popolazioni, da Nord a Sud, da Oriente a Occidente. A partire dal ‘900 però anche la Sardegna ha subito un forte decremento a favore dell’industrializzazione e di altri settori (i servizi ad esempio) che hanno portato questo settore economico, a non avere più quel ruolo centrale che aveva avuto fino al secolo precedente. Solo l’allevamento, il settore attiguo all’agricoltura, ha resistito alla modernizzazione, pagando però il prezzo di subire ammodernamenti zootecnici che hanno in stravolto il tradizionale sistema.
NEL 1971 LA SVOLTA: L’INDUSTRIA BATTE L’AGRICOLTURA
I soddisfacenti risultati della riforma agraria, avviata nell’isola all’inizio degli anni Cinquanta, avevano avuto l’effetto benefici piuttosto limitati nel tempo. In quegli anni, la Sardegna subì immediatamente un cospicuo esodo della popolazione rurale verso i grandi centri abitati, soprattutto laddove c’erano i primi insediamenti industriali che attiravano forza lavoro e offrivano buste paga sicure. Il moderno processo di industrializzazione, iniziò con i grandi impianti petrolchimici di Porto Torres, seguirono Sarroch in provincia di Cagliari e Ottana, al centro della Sardegna. Nel 1971, secondo i dati del censimento generale, per la prima volta nella storia millenaria della Sardegna, il numero degli addetti all’industria superò quello degli addetti all’agricoltura, che così perdeva l’antichissimo ruolo di prima fonte di lavoro e reddito.
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NEL 2000 L’AGRICOLTURA RAPPRESENTA MENO DEL 10% DELL’ECONOMIA
Nel frattempo, un altro antico settore economico che aveva fatto la storia della Sardegna, ovvero l’allevamento, resistette a questa sorte: il numero di capi di bestiame accusò una diminuzione più contenuta, sebbene nei successivi dieci anni si persero circa diecimila aziende zootecniche.
Osservando il fenomeno negli anni più recenti, si può dedurre come dal 2000 i lavoratori agricoli erano circa 47 mila, contro i 115 mila dell’industria e i 354 mila del settore terziario. Ciò significa che in agricoltura ormai la Sardegna occupava appena il 9% della sua forza lavoro. La produzione agricola lorda vendibile nel 2001 contribuiva alla formazione del valore aggiunto regionale con la sola quota del 6,8%. L’allevamento invece si difendeva meglio e, sebbene nel 1990 gli allevamenti di pecore e capre diminuirono del 30% e quelli bovini del 32%, ma nel 2000, gli allevamenti aumentarono di nuovo: nel settore ovino-caprino si era passai da una media di 147 a 185 capi e in quello bovino da 23 a 30. Tutto ciò anche se il settore dell’allevamento aveva subito il pesante impoverimento del comparto a seguito di due gravi epidemie: il morbo della “lingua blu” e il morbo della “mucca pazza”, che determinarono una ricaduta immediata sul commercio, provocando la diminuzione della domanda di carni rosse e il blocco della esportazione del bestiame sardo verso la penisola. Blocco che ritroviamo oggi nel commercio delle carni suine a seguito della peste.
LA SCOMMESSA DEL BIOLOGICO: CI SONO LE CARTE MA NON SI GIOCA
Oggi, la Sardegna a fronte della diminuzione delle coltivazioni tradizionali è stata parzialmente compensata dallo sviluppo da quelle biologiche. Circa 250 mila ettari di superficie sarda sono destinati a questo tipo di agricoltura, si tratta della più vasta d’Italia, ma i sui prodotti, non hanno trovato una sufficiente commercializzazione e ancora il comparto fatica ad occupare una fetta importante dell’economia regionale.