L’agronomia locale è l’espressione più autentica del rapporto tra il territorio e le genti che lo abitano o l’hanno abitato, così come, al tempo stesso, nell’ambito delle scienze agrarie, la frutticultura tradizionale rappresenta più nel dettaglio lo sviluppo sostenibile di una popolazione. Nell’agricoltura sarda le pere sono il risultato di un esperimento agronomico secolare tutt’altro che scontato ma eccezionalmente realizzato: in una terra esposta alle alte temperature e a lunghi periodi di siccità , fin dall’antichità , è stato, infatti, possibile coltivare e raccogliere frutti dissetanti e nutrienti composti per l’85% di acqua.
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La pera sarda
Fin dal medioevo, in Sardegna, le pere selvatiche erano tra i prodotti spontanei della terra più ricercati perché, in una regione così povera di aree coltivabili, potevano sfamare la popolazione. Prima dei moderni sistemi di conservazione, la pera, veniva efficacemente stoccata nel fruttaio per poi diventare scorta alimentare durante l’inverno. Alcune specie si raccoglievano addirittura in autunno e si facevano maturare in cantina, tenute sott’acqua, dentro un’anfora di terracotta e consumate fresche oppure mischiate nell’insalata con peperoni, aceto, acciughe e olive.
La pera sarda: un frutto moderno
Le pere sarde sono conosciute oltre che per le loro peculiarità organolettiche dai sapori forti e decisi, pure per la loro eccezionale resistenza alle malattie: secondo alcuni recenti studi accademici specialmente i frutti del Nuorese e della Barbagia sono capaci di bloccare il gene della micotossina “penicillium espansum“. La pera sarda, inoltre, è da anni oggetto di studio dell’Università di Cagliari, in particolare, il liofilizzato di pera “Vacchesa”, è stato riconosciuto un utile collaboratore in ambito odontostomatologico, perché in grado di combattere l’alitosi dovuta a disordini dentari e attivarsi efficacemente nella lotta ai radicali liberi dopo operazioni al cavo orale. Lo stesso liofilizzato è anche un eccellente cicatrizzante già nel mirino dei nuovi sistemi di cure naturali.
Le pere sarde: alcune varietà
In Sardegna le pere autoctone più conosciute e richieste, seppur da un mercato di nicchia sono:
- la pera Camusina
- la pera San Domenico
- la pera Bau
- la pera Olzale
La Pera Camusina
La Pera Camusina è una varietà autoctona sarda a rischio di estinzione. Pochi coltivatori ancora la producono, ma la richiesta del mercato potrebbe ripartire sulla scia delle sue riscoperte specificità e risvegliarne la filiera. Si tratta di una pera piccola, carnosa, con polpa bianca e mediamente succosa. La pera Camusina fu introdotta nell’isola durante la dominazione romana e corrisponde, secondo alcuni studiosi, ad una varietà già presente nel pompeiano. Secondo altri, sarebbe originaria della città ligure di Camogli (camusino → camoglino), in quanto, il nome italiano sarebbe proprio “camoglina”. La pera Camusina non è una campionessa di durabilità , dopo appena due giorni dalla raccolta comincia a scadere, ma se mangiata in tempo è in grado di fornire all’organismo un’eccellente quantità di poilifenoli, capaci di neutralizzare i radicali liberi.
Altre varietà di pere sarde sono la “San Domenico” e la “˜Bau”, ricercate dal mercato per la produzione di succhi di frutta industriali. Gli effetti salutistici del consumo in Sardegna della pera “Olzale” pare invece che abbiano legami diretti con la longevità di alcune popolazioni ultracentenarie dell’Ogliastra. Si tratta di una pera dalla polpa dura e coriacea, molto aspra e con effetti astringenti perché ricca di tanino. Sebbene non possa essere consumata appena raccolta, questa pera dà il meglio di se dopo che “ammazzisce”, dopo cioè che ha “riposato” tra la paglia in luoghi ventilati, in modo che i tannini si trasformino in zuccheri e la polpa si ammorbidisca. Pure il sapore nel frattempo è cambiato e si è orientato verso il dolce, dando al frutto una certa prelibatezza. In Sardegna, questa pera, si mangia quando diventa nera; la si taglia a metà e la si imbocca con un cucchiaino.
La Pera Italica
La pera è una frutta fresca tipicamente mediterranea originaria dell’Europa sud-orientale e dell’Asia occidentale. Nella Magna Grecia già 350 anni prima di Cristo, la coltivazione della pera era una realtà consolidata, perché si conoscevano sia numerose varietà selvatiche che coltivate, come riporta lo stesso autore greco Teofrasto.
In epoca romana la produzione delle pere venne perfezionata al punto che i contadini del meridione italico potevano scegliere su ben 40 varietà di pera, certamente nulla a confronto delle attuali 5 mila presenti sul mercato mondiale attuale.
Durante l’Alto Medioevo l’Italia non era ancora una grande produttrice di pere: la coltivazione era anche scoraggiata dalle informazioni mediche che sconsigliavano il consumo di frutta in generale. Solo a partire dal 1400, l’agronomia riscopriva la coltivazione dell’albero da frutto e, con i primi scambi commerciali verso le Americhe, pure Messico e California, divenivano ben presto nuove aree di coltivazione. Il consumo della pera tuttavia era ancora riservato a poche persone appartenenti a riservatissime classi sociali, come l’aristocrazia e l’alta borghesia. La pera sarebbe diventata alimento di massa solo nel ‘900 quando la frutta non fu più considerata un “cibo di sfarzo della tavola borghese”.
Le gravi conseguenze dell’omologazione commerciale
Oggi la maggior produttrice di pere è la Cina (ne detiene il 50% della produzione mondiale), seguita dall’Italia e dagli Stati Uniti. Il Bel Paese detiene il primato europeo di produzione di pere, seguito da: Spagna, Polonia, Paesi Bassi, Francia e Germania. A partire dagli anni ’70 l’Europa ha razionalizzato la varietà produttiva, puntando sempre di più sulle pere più richieste dal mercato, determinando la scomparsa di molte varietà locali, soprattutto quelle prodotte dei piccoli coltivatori.
Il mercato mondiale dell’agricoltura
La drastica riduzione delle varietà di pere coltivate, ha determinato nel giro di trent’anni, pesanti conseguenze sul piano sociale e ambientale. La marginalizzazione di certe agricolture storiche ha prodotto il depauperamento e l’inquinamento dei suoli, la perdita delle diversità paesaggistiche e aumentato i rischi alimentari. Interrompendo il legame stretto tra coltivazioni e allevamenti (in Sardegna era lo stesso pastore che durante il tragitto di transumanza, innestava il pero selvatico per poi avere un frutto a portata di mano al rientro, per se, e per il bestiame) sono state messe in crisi molte efficaci soluzioni di letamazione, di riciclo e di residuo colturale, nonché il processo delle rotazioni. La semplificazione ambientale ha poi causato l’allontanamento della fauna selvatica e, con la scomparsa della tecnica del terrazzamento (non adatta al transito dei macchinari agricoli) si è esposto il territorio al grave rischio idrogeologico che oggi è cronaca locale negli autunni italiani.