Il Capitalismo moderno nasce propriamente in Inghilterra nel 1760 con la Rivoluzione Industriale. Esso è caratterizzato da profonde trasformazioni nel modo di produzione, dalla dinamica del profitto, dalla tendenza alla concentrazione monopolistica, dalla instaurazione di scambi su scala sempre più vasta, dalla pauperizzazione delle masse.
Tuttavia, già in epoche precedenti, a partire dal 1000, quando gli Stati centrali allentano il controllo sui territori periferici, i mercanti da itineranti diventano stanziali e imparano ad accumulare denaro dalle operazioni commerciali. Sono i secoli delle Repubbliche Marinare, dei Comuni e della Lega Anseatica e il denaro diventa il nuovo strumento di potere che la classe emergente posta nel mezzo tra aristocratici e popolo nulla tenente, impiega per scalare posizioni politiche e piegare ai suoi interessi gli altri ceti. Nel Trecento poi, a Genova, a Venezia, a Milano, a Firenze e nelle Fiandre nascono le banche che utilizzano il capitale per far leva sul potere statale e indurlo a sottomettersi: è la nascita del capitalismo primitivo che si svilupperà poi in capitalismo moderno quattro secoli dopo con la nascita dell’industria.
IL CAPITALISMO PRIMITIVO
L’instaurazione del sistema capitalistico di produzione, quale si realizza in Inghilterra nel XVIII secolo, è preceduto da altre trasformazioni remote e profonde, quali l’accumulazione del capitale, l’avvento di una produzione finalizzata al mercato, la commercializzazione dell’economia. Entro queste grandi linee va inquadrata l’attività dei Comuni italiani, lo sviluppo commerciale delle Repubbliche marinare, il rigoglio delle città tedesche strette insieme nella Lega anseatica e i Comuni delle Fiandre.
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A questa floridezza dei ceti emergenti, in futuro chiamati “ceti borghesi”, corrisponde il decadere di quelli feudali dei padroni delle terre, colpiti da una crisi economica che li costringe a contrarre debiti gravosi con chi dispone del denaro liquido o capitale, cioè con l’odiato ceto borghese.
Si giunse così al punto che gli aristocratici dovettero vendere le loro terre e le loro case cittadine a prezzi irrisori. Ad acquistarle furono gli stessi ceti mercantili ed artigiani che trovarono conveniente investire parte del loro denaro in beni immobili. Ne restava loro ancora a sufficienza per sviluppare le attività mercantili e produttive e per continuare nelle vantaggiose operazioni di credito o usura che producevano nuovo denaro.
Questo processo di espropriazione (che Karl Marx ha descritto nelle pagine del Capitale sotto il titolo di “accumulazione primitiva“), si svolse anche verso il basso: campi, pascoli, case furono strappati dai ceti borghesi alla gente povera attraverso una lunghissima guerra senza scontri campali.
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Tra il 1100 e il 1200 i signori feudali, vescovi compresi, in Francia e in Italia vengono travolti da una crisi finanziaria. La crisi per alcuni di loro arriva fino al punto di dover chiedere l’elemosina per sopravvivere.
A risucchiare le ingenti risorse degli aristocratici che detenevano per diritto feudale ingenti capitali immobiliari (case, terreni) sono le classi emergenti di mercanti, artigiani e piccoli industriali, coloro cioè che non avevano capitali immobiliari ma avevano accumulato quelli mobiliari del denaro attraverso l’esercizio della loro professione. La disponibilità del denaro da parte delle classi che a breve saranno inquadrate come “borghesi” fa sì che queste le possano “prestare” agli aristocratici. Il prestito ovviamente non veniva dato gratis, ma in cambio di interessi che potevano maturare anche con il riscatto dei beni del debitore qualora questi non fosse riuscito a restituire il prestito.
DAL PRESTITO ALL’INTERESSE ALLO STROZZINAGGIO: NASCE IL CAPITALISMO
Gli interessi erano spesso così grandi da essere delle vere e proprie opere di strozzinaggio che misero in ginocchio anche le casse degli aristocratici più ricchi. I pagamenti del debito a volte avvenivano in denaro, altre volte con la messa a disposizione dei frutti delle campagne, consentendo ai mercanti di intascare favolosi guadagni provenienti ad esempio dalle regioni granifere.
Per quale motivo gli aristocratici ebbero bisogno di denaro?
Il re Federico di Svevia ad esempio, per alimentare la sua politica aggressiva contro la Chiesa romana e contro i Comuni italiani, chiese in prestito ai mercanti romani, senesi, fiorentini o emiliani, ingenti somme di denaro, a cui dovette però corrispondere interessi anche superiori al 60%.
E’ così che mentre feudatari e sovrani si dibattevano sulle angustie più dolorose, i mercanti ebbero la possibilità di iniziare a tutto loro vantaggio le prime operazioni di credito che la storia economica del mondo moderno conosca. Ed è chiaro che tutta questa gente diventata a poco a poco arbitra della vita stessa delle classi aristocratiche, ha già, quando inizia l’opera sua, la forza del capitale. In altre parole, essi non hanno né terre né case, ma hanno l’oro; sono cioè “capitalisti“.
Il capitale circolante è creato dai traffici, dallo sfruttamento delle miniere orientali, dal risparmio ingordo dei mercanti; e quando esso è aumentato nelle casse dei privati speculatori, sorgono le prime operazioni di credito che aprono poi la strada alle espropriazioni fondiarie ai danni dell’aristocrazia feudale, erano le mani di nuovi e più potenti padroni i cosiddetti “sùbiti guadagni” di Dante.
DAL POTERE IMMOBILIARE AL POTERE MOBILIARE
Nel Trecento, quando i mercanti genovesi sono diventati banchieri, il denaro accumulato di generazione in generazione diventa strumento di potere contrattuale verso chi non ce l’ha. Tra coloro che non ce l’hanno ci sono gli Stati. Gli Stati centrali, che fino ad allora erano i detentori del potere territoriale e i rappresentanti della vecchia aristocrazia ereditaria e fondiaria, non hanno denari perché non hanno fonti di guadagno in quanto non esercitano commerci. Ma quando iniziano le campagne di espansione coloniale oltre oceano, per finanziare le traversate, gli Stati si trovano nella necessità di chiedere alle banche i soldi in prestito. Ed è così che l’aristocrazia, per mantenere il suo potere politico, deve chiedere il favore ai banchieri. Con questa operazione il potere passa dall’aristocrazia fondiaria ai banchieri, i quali, prestando il loro denaro chiedono in cambio tassi di interesse che mettono in ginocchio le finanze statali.
NASCE IL POTERE DELLE BANCHE
I pagamenti degli Stati, quando gli interessi erano troppo alti, non potevano avvenire in denaro, e la soluzione era la svendita di ampi porzioni di terreno: le banche in questo modo diventavano i nuovi proprietari fondiari. La svendita dei terreni avveniva spesso in condizioni umilianti per il debitore.
Il capitalismo tuttavia non nacque direttamente dalla rendita finanziaria dei nuovi terreni avuti dagli aristocratici e dagli Stati (rendite che al massimo davano il 15%), ma la prima e la principale fonte di denaro sono i traffici commerciali. Così ad esempio i mercanti fiorentini, ai tempi di Dante, accumulano ingenti ricchezze trafficando i lavorati della lana.
Del resto, le famiglie più celebri nella storia delle finanze italiane, sono le prime che creano la banca, cioè l’istituzione capitalistica più tipica e più mirabile. Quando nacque Dante i Bardi, i Peruzzi, i Capponi, i Portinari, erano mercanti mediocremente fortunati, mentre un secolo dopo avevano tanto da prestare ai sovrani di mezza Europa parecchi milioni di fiorini. I Medici, prima della metà del 9° secolo erano quasi sconosciuti fuori da Firenze, ma nei primi decenni del secolo successivo, alla morte di Cosimo il Vecchio, il banco mediceo era uno dei più ricchi e più accreditati d’Italia, ed aveva affari in tutta l’Europa occidentale.