A seguito di due incidenti nucleari, 1979 (Three Miles Island) e 1986 (Chernobyl) che impressionarono l’opinione pubblica occidentale e in particolare quella italiana, sorse una contrarietà diffusa all’uso del nucleare come fonte di approvvigionamento energetico. Alcune forze politiche come il Partito Radicale e nuovi movimenti ecologisti sorti nei primi anni ’80 come Lega Ambiente, decisero di cavalcare questo malcontento per tradurlo in un’azione politica vera e propria che portò alla realizzazione di un referendum.
UN ATTACCO “LATERALE” AL NUCLEARE
Vista la delicatezza della situazione sia in termini di costi politici per i partiti che sostenevano o meno questa battaglia, sia in termini economici nazionali per l’impatto che avrebbe avuto la rinuncia ad una delle migliori tecnologie di produzione energetica (al netto delle ricadute ambientali) a livello nazionale, l’argomento del nucleare fu affrontato “lateralmente”, nel senso che lo stesso testo referendario non chiese esplicitamente la chiusura delle centrali e l’abbandono di questa risorsa, bensì di mettere i comuni e lo stato nelle condizioni di disagio economico e politico qualora avessero perpetrato nel mantenimento di questa soluzione energetica, così mal vista dall’opinione pubblica e criticata a fronte dell’allora recente disastro di Chernobyl in particolare, da una buona parte degli esperti del settore (giornalisti, tecnici, ingegneri, economisti).
I quesiti referendari sul nucleare vennero dunque inseriti in coda ad altri argomenti (giustizia) di forte dibattito politico da ormai dieci anni, sebbene rischiarono di essere messi al bando in concomitanza con la caduta del governo pentapartito.
L’8 e il 9 novembre 1987 in Italia si votò per cinque referendum abrogativi che riguardarono:
- la responsabilità civile dei magistrati
- l’abrogazione del Sistema Elettorale e della Commissione inquirente del CSM
- l’abolizione dell’intervento statale qualora un Comune non desse il permesso all’apertura di una centrale nucleare sul suo territorio
- l’abrogazione dei contributi statali destinati agli enti locali che ospitavano nel loro territorio centrali nucleari
- l’abrogazione della opzione di costruzione di centrali nucleari all’estero da parte dell’Enel.
L’ANDAMENTO DEL REFERENDUM
Al referendum abrogativo del 1987 parteciparono il 65,1% dei votanti, si conclusero con la affermazione del “sì” che raggiunse la media del 78% per tutti e cinque i quesiti, ma con una percentuale di schede o nulle compresa tra il 12,4% e il 13,4%.
IL REFERENDUM SUL NUCLEARE
Sebbene il referendum abrogativo del 1987 sia comunemente identificato come il “Referendum sul nucleare”, in realtà i quesiti furono cinque, presentati dal Partito Socialista Italiano (PSI), dal Partito Radicale (PR) e dal Partito Liberale Italiano (PLI). I primi due riguardarono il riordino di alcune questioni giudiziarie, mentre gli altri tre trattarono l’argomento “nucleare in Italia” senza tuttavia chiedere esplicitamente l’abolizione o la chiusura delle centrali nucleari, bensì solo una regolamentazione della localizzazione degli impianti e delle agevolazioni al nucleare.
LA CONTRARIETA’ DELL’OPINIONE PUBBLICA ITALIANA AL NUCLEARE
L’immagine pubblica delle centrali nucleari come impianti di produzione industriale di energia elettrica aveva cominciato a deteriorarsi nell’opinione degli italiani già nel 1979, quando avvenne l’incidente di Three Miles Island (Pennsylvania, Stati Uniti), in cui il nocciolo subì una parziale fusione determinando la fuoriuscita di alcune quantità di gas radioattivo. Di seguito, a Roma, scesero in piazza oltre 20 mila persone per protestare contro la costruzione della centrale di Montalto di Castro (Viterbo) e, nel frattempo, sulla scia di questa contrarietà al nucleare nacque la Lega per l’Ambiente (divenuta poi Legambiente) ad opera del socialista Maurizio Sacchi e del dirigente Chicco Testa che pose al centro delle sue prime battaglie proprio il “No al Nucleare”.
IL DISASTRO DI CERNOBYL
A fronte di questa perplessità diffusa sull’uso del nucleare, per contro, si poneva l’annoso problema italico dell’approvvigionamento energetico ricorrendo il meno possibile all’acquisto di materie prime provenienti dall’estero come il petrolio. Tutto ciò doveva essere risolto anche con la diversificazione energetica che aveva compreso, tra le altre soluzioni individuate dal Piano Energetico Nazionale della metà degli anni ’80, anche il ricorso al nucleare.
A dare però la spallata definitiva all’adozione anche di questa risorsa vi fu l’incidente nucleare di Chernobyl (LEGGI QUI), accaduto il 26 aprile del 1986.
La maldestrezza delle autorità sovietiche a prevenire e a contenere gli effetti dell’incidente; il risalto mediatico mondiale che ebbe l’entità dell’evento e le nefaste conseguenze, tra morti, feriti, ammalati immediati e postumi, inquinamento delle aree comprese le ricadute su territori lontani finanche l’Europa occidentale, furono tutti fattori che portarono l’opinione pubblica italiana (sostenuta da movimenti e partiti ecologisti o neo-ecologisti) a dichiarare la propria contrarietà all’uso dell’energia nucleare per scopi industriali e civili. Fu così che a maggio dello stesso anno, scesero in piazza Roma, oltre 200 mila persone che manifestarono contro il nucleare. Nel frattempo, il Partito Radicale aveva promosso il referendum per portare la questione su un piano formalmente politico in cui le altre forze politiche erano costrette a confrontarsi e a prendere posizione, uscendo così dalla silente ambiguità nei confronti della faccenda nuclearista. A tutto ciò si aggiunga il passaggio dei movimenti ambientalisti allo status di partito politico, con il Sole che ride.
LA POLITICA DIVENTA ANTINUCLEARISTA
L’argomento “nucleare” quindi era ormai spiaggiato sul dibattito politico e dunque anche i piani istituzionali più alti dovevano mettere i piedi nel piatto e lo fecero direttamente nel febbraio dell’anno dopo alla Conferenza Nazionale per l’Energia e l’Ambiente (CNEA) dove i sentimenti antinuclearisti emersero con chiarezza, facendo peso specifico sulla posizione finale della riunione. A fronte di ciò rimaneva comunque sul tappeto il problema economico dell’abbandono del nucleare che avrebbe avuto ripercussioni industriali e sociali importanti.
LA CRISI DI GOVERNO
A livello governativo invece le divergenze tra Dc (De Mita) e Psi (Craxi) aprirono la strada alla crisi di governo e alla richiesta di elezioni anticipate. Queste furono ritenute una minaccia alla calendarizzazione del referendum abrogativo del nucleare in un momento in cui le forze ecologiste stavano, seppur lentamente, aumentando i loro consensi. Alla fine però la data del referendum fu fissata prima, a novembre del 1987, e le elezioni furono prorogate dopo al giugno successivo, in questo modo non avrebbero cannibalizzato il referendum e, al tempo stesso, i partiti politici di maggior rappresentanza (Dc e Pci) fecero in tempo, temendo un calo di consensi, a schierarsi a favore della causa antinuclearista.
Verdi, radicali, socialisti, comunisti, democristiani e timori dell’opinione pubblica alimentati dalle tragiche notizie che arrivavano dall’Ucraina fecero si che la vittoria del no al nucleare al referendum diventasse schiacciante e l’Italia virò verso una politica di abbandono di questa risorsa. Tutto ciò sebbene nessuno dei quesisti referendari chiese espressamente le dismissioni delle centrali nucleari.
Fu così che tra il 1987 e il 1990 furono gradualmente fermate tutte le centrali nucleari presenti sul territorio italiano e riconvertite verso altre tecnologie quelle ancora in costruzione, come la centrale di Montalto che venne trasformata in corsa da centrale nucleare a centrale a policombustibile. Da ciò, in ottemperanza a quanto stabilito nella delibera CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) del 26 luglio, il programma nucleare italiano fu definitivamente sospeso.
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Autore dell’articolo: Pierpaolo Spanu
Foto di copertina: Ant Rozetsky (Unsplash)