La filosofia greca classica nasce a Mileto, la colonia commerciale greca che si trovava sulle sponde mediterranee della penisola Anatolica, detta anticamente da greci, romani e bizantini Asia minore.
L’IMPORTANZA DELLA FILOSOFIA
L’importanza delle colonie fu fondamentale per la nascita della filosofia perchè era in quei luoghi che avvenivano gli scambi culturali – sullo sfondo di quelli commerciali – tra genti provenienti da ogni parte del mondo. Le colonie greche nascevano per soddisfare le esigenze abitative di quel surplus di popolazione che vi era in madrepatria, per il quale non vi era posto e non vi erano risorse. Andare alla ricerca di nuove terre per una parte di loro era l’unica soluzione di sopravvivenza.
Per queste genti il legame con la terra di origine rimaneva sul piano della lingua e dei costumi, ma l’incontro con nuove popolazioni e la lontananza dello stato centrale che non aveva le energie e le volontà politiche di esercitare un forte controllo su di loro, faceva sì che nelle colonie la popolazione potesse avere una maggiore libertà personale. La libertà personale unita al multiculturalismo diventava la combinazione perfetta per la nascita di nuove forme di pensiero, slegate questa volta dalle necessità di risolvere problemi tecnici (navigazione, commerci e operazioni contabili, agricoltura) e dalle credenze imposte dai dogmi religiosi, ma invece dedicate all’osservazione del mondo fine a sè stessa, per comprenderne il significato attraverso un’indagine razionale sulla realtà .
Il dinamismo culturale, sociale e ovviamente commerciale che si creava tra popoli diversi nelle colonie greche della Ionia creava dunque il terreno fertile per la nascita della filosofia, che si differenziò da subito dalle altre forme di conoscenza per essere un’indagine razionale sulla realtà e in particolare, quella dei primi filosofi greci, i cosiddetti Presocratici, fu una ricerca razionale sul mondo della natura.
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PERCHÉ SI CHIAMANO “FILOSOFI PRESOCRATICI”
La storia della filosofia, dalle origini ad oggi, è stata suddivisa convenzionalmente, sia in ambito didattico che di ricerca pura, per ragioni di comprensione, di trasmissione e di studio, in periodi cronologici o in filoni tematici.
In particolare, per quanto riguarda la filosofia antica, il primo filone tematico, quello che va da Talete ai Sofisti, è stato denominato “Filosofia Presocratica“, per individuare quell’insieme di filosofi che esternarono il loro pensiero con testimonianze scritte, orali o attraverso fenomeni politici, correnti di pensiero o scuole accademiche, prima dell’intervento nella storia del pensiero greco di Socrate, definito uno spartiacque della filosofia antica occidentale. Le ragioni dell’assegnazione di questo ruolo a Socrate, stanno nel fatto, che, egli spostò la speculazione filosofica dalla natura all’uomo.
I filosofi presocratici quindi concentrano la loro indagine filosofica sull’origine di fondo che lega indissolubilmente tutte le molteplicità del mondo naturale. Essi cercarono, il denominatore comune che faceva da principio a tutte le cose naturali e questo principio fu chiamato, dai pensatori di Mileto “archè“, o “elemento primo” che era il fondamento assoluto di tutta la natura, la “ph´ysis” come la chiamavano gli antichi greci.
LA FILOSOFIA A CONFRONTO CON LE ALTRE SPECULAZIONI CONCETTUALI
Oltre alla filosofia, fin dalle origini del pensiero umano, già altre forme di interpretazione della realtà e del senso della vita umana, avevano fornito visioni su ciò che doveva essere il principio della natura, come ad esempio l’arte e la teologia. Soprattutto quest’ultima che letteralmente vuol dire “discorso intorno a Dio” faceva da sostegno teoretico alle religioni. Queste visioni tuttavia, a differenza della filosofia, non si approcciavano all’argomento e non lo trattavano e non lo esponevano con un’indagine razionale ma fondavano le loro teorie sulla mitologia.
FILOSOFIA E TEOLOGIA: DUE VISONI ANTITETICHE DELLA REALTA’
Sebbene nella Repubblica di Platone si riconosceva alla teologia un valore pedagogico, perchè attraverso i miti e le leggende sapeva spiegare le verità che la filosofia aveva il compito di vagliare criticamente e con Aristotele si riconosce alla teologia il ruolo di “scienza prima“, perchè si occupa dell’essere eterno ed immobile, cioè di Dio, agli albori della filosofia, quella presocratica appunto, la teologia viene collocata in anteposizione alla filosofia in modo che a quest’ultima giovanissima forma di speculazione, venga subito riconosciuto un ruolo e una identità concettuale che si occupa non più dello stadio mitologico come la teologia ma di quello razionale.
A cura del professor Francesco Lorenzoni
LA FILOSOFIA PRESOCRATICA
Può risultare benefico ritornare ogni tanto alle origini della filosofia e alle primitive metafisiche. Risalire alla fonte per trovare soddisfazione alla domanda di senso del presente recuperando il senso del passato. Approdare a quello che sembrerebbe il punto di partenza al quale, invece, l’umano sentimento di incompiutezza sovente ci sospinge a rinnovo del primordiale interrogarci. Riandare, come un tempo, alla filosofia pubblica, al dialogo con tutti gli strati della società , al confronto critico con tutti i saperi e le forme d’esperienza che si impongono nella quotidianità , uscendo dalla rocca elitaria delle università o dalla prigione dorata della spettacolarità mediatica. Come scrive Peter Szendy, la filosofia non è pensiero puro, confinato, privilegio di casta; è all’opposto pensiero che si cerca nella contaminazione, esposta all’impuro; è fuga dalla torre d’avorio, lasciandosi appassionatamente afferrare e infettare.
I MILESI: TALETE, ANASSIMANDRO, ANASSIMENE
La filosofia greca classica, come osservato, nasce dapprima nelle colonie e solo dopo nella madrepatria. Sorge precisamente a Mileto, attiva colonia commerciale sulle coste dell’Asia minore. I continui scambi commerciali e i contatti con tradizioni e usi differenti sono causa di una grande apertura culturale e, probabilmente, anche di un certo senso di disorientamento rispetto al mondo di provenienza ed alla propria identità . A partire dalla realtà naturale nella quale immersi, è scaturito l’intento di trovarne una visione unitaria, andando alla ricerca di un principio primo in base a cui spiegare complessivamente l’origine del mondo e delle cose nonchè il loro divenire, come pure il loro destino una volta uscite dal mondo.
Filosofi naturalisti o “fisici” (dal greco “physis“) sono stati denominati gli esponenti della “Scuola di Mileto“, così chiamata, tutti contraddistinti dall’intendimento di ricondurre il principio primo della realtà , concepito come causa di tutte le cose particolari, ad un comune elemento naturale.
Il termine greco “physis” viene abitualmente tradotto con “natura”, da non intendersi solo come complesso dei fenomeni che formano il mondo naturale ma anche, in senso più prossimo alla metafisica, come fondamento ed essenza della natura medesima e sua intima organizzazione.
Principio primo in greco si dice “archè”. Esso possiede tre significati:
- ciò da cui tutte le cose derivano, la loro origine e causa;
- ciò che permane identico nelle cose anche quando, col divenire, esse subiscono modificazioni;
- ciò che, oltre le cose singole e il loro cessare, continua a rimanere immutato: il fondamento del tutto, l’unità da cui tutto viene e a cui tutto ritorna.
Assolutamente innovativa è la ricerca della spiegazione della realtà attraverso i concetti di physis e di archè, giacchè costruita su di un nuovo tipo di razionalità dimostrativa che abbandona la spiegazione mitica. Il grande merito dei Milesi è quello di aver creato una nuova immagine di universo, ordinato e razionale, ove gli accadimenti non dipendono più dall’intervento, spesso capriccioso, degli dei, ma sono spiegati in esito a reciproci intrecci relazionali secondo principi regolari e costanti, suscettibili quindi di indagine.
TALETE (settimo e sesto secolo a.C.)
È stato l’iniziatore della filosofia della physis avendo per primo affermato che esiste un principio originario unico, causa di tutte le cose, individuato nell’acqua, influenzato per tal verso dalla constatazione che “il nutrimento di tutte le cose è umido”.
Invero il valore di Talete, ossia la grande rivoluzione operata che portò alla creazione della filosofia ed agli albori della civiltà occidentale, più che nell’individuazione dell’acqua come principio primo consiste nell’aver statuito per la prima volta il concetto stesso, filosofico-razionale, di principio originario, inteso non solo come origine e termine delle cose tutte ma altresì come elemento unitario della totalità della natura. In tal senso l’acqua di Talete non va interpretata come elemento sensibile, ma come simbolo volto a rappresentare l’unitaria sorgente comune in tutte le più diverse cose. Si tratta, come osservava Nietzsche, non di una proposizione scientifica, che sarebbe falsa, bensì di un asserto metafisico, quantomeno pre-metafisico, vale a dire una proposizione che, sempre rinnovata, troviamo in tutte le filosofie nel tentativo di esprimere al meglio che “tutto è uno“. In un asserto metafisico ciò che conta non è tanto il nome che si dà al principio primo quanto la risoluzione del molteplice nell’unità .
Da questo punto di vista l’affermazione di Talete risulta assai meno banale di quanto può sembrare a prima vista. Egli perciò non è soltanto il padre della filosofia ma anche l’autore del prototipo di una metafisica che troverà innumerevoli seguaci e imitatori: la metafisica immanentistica, ovvero non trascendente ma intramondana, interna al mondo.
Talete è un naturalista nel senso antico del termine e non un materialista nel senso moderno. Tant’è che l’acqua come principio è stata da lui concepita come principio vitale di natura divina. “Dio (ovviamente un Dio filosofico, non declinato in senso religioso), egli afferma, è la cosa più antica perchè ingenerato, ossia perchè principio”. Emerge in tal modo una nuova concezione della divinità , pensata come principio secondo criteri di ragione e non di immaginazione. Quando Talete ulteriormente afferma che “tutto è pieno di dei” vuol significare che ogni cosa è pervasa dal divino principio originario. E poichè il principio originario è vita, egli intende dire che tutto è vivo, che tutto è animato, anche le cose inorganiche. Con Talete, e con gli altri Milesi, gli dei non sono più le creature del mito, bensì le forze vitali nascoste nei recessi delle cose e della natura, razionalmente concepibili. Scompare l’aspetto aggressivo e pauroso anticamente attribuito dal mito alla collera degli dei e prevale l’atteggiamento dell’indagine.
ANASSIMANDRO (610-545 a.C.)
Discepolo di Talete, anche Anassimandro si pone la questione dell’unicità del principio, fornendo al riguardo una risposta più approfondita: il principio di tutte le cose, l’elemento primordiale, non può essere un elemento determinato, come i classici quattro elementi naturali, acqua, aria, terra e fuoco, perchè quel che si cerca di spiegare ne è invece l’origine. Individua perciò il principio in quello che da lui è denominato “à peiron”, che alla lettera significa senza limiti. Si tratta di un principio più astratto. Non si riferisce ad una sostanza di natura ma designa ciò che è inesauribile, quindi infinito ma anche indefinito, indeterminato, immaginabile come un magma indistinto da cui trovano poi nascita tutte le cose determinate. Questo infinito, scrive Anassimandro “appare come il divino perchè è immortale e indistruttibile”. Il principio, l’archè, deve essere una realtà che sta oltre ogni singola determinazione, posto che ogni determinazione è finita e, in quanto tale, non può dar conto dell’enorme diversità del molteplice. Tutti gli studiosi concordano nel riconoscere l’importanza del concetto di à peiron quale formulato da Anassimandro. Esso è in effetti il primo concetto di risvolto metafisico elaborato dalla filosofia greca, mentre in Talete troviamo soltanto una “intenzione” metafisica stante la marcata fisicità dell’elemento primordiale individuato nell’acqua
Anche Anassimandro, come Talete, è peraltro un naturalista; concepisce il principio non come trascendente il mondo naturale ma in esso immanente. In aggiunta però, mentre Talete non si era posto la domanda circa il come e il perchè dal principio derivino tutte le cose, Anassimandro intende invece dare una risposta.
Parte dalla considerazione che il mondo è costituito da una serie di elementi contrari e che questi tendono a sopraffarsi l’un l’altro (caldo e freddo, secco e umido, ecc.). Viene in qualche modo anticipata una prima concezione dialettica, conflittuale, della realtà . In questa volontà di sopraffazione di un contrario nei confronti dell’altro consisterebbe quell’ingiustizia per cui, secondo Anassimandro, tutte le cose sono destinate alla dissoluzione, pagando con ciò la colpa della loro prepotenza. In tale situazione il tempo è visto come giudice che assegna un limite a ciascuno degli elementi contrari, ponendo un termine al predominio dell’uno a favore dell’altro e viceversa. Appare innegabile in questa concezione un influsso delle esoteriche dottrine orfiche per quanto riguarda l’idea di una colpa originaria e dell’espiazione attraverso un ciclico dissolvimento e rinascita. Scrive in proposito Anassimandro: “Donde le cose traggono la loro nascita, ivi si compie anche la loro dissoluzione secondo necessità ; infatti reciprocamente pagano il fio e la colpa dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”.
Commenta Heidegger: “Si trova naturale che una considerazione della natura ancora primitiva descriva i processi che avvengono nelle cose in analogia con gli eventi quotidiani della vita. Così si spiega perchè il detto di Anassimandro parli di ingiustizia e giustizia, di ammenda e fio, di espiazione e soddisfazione. Concetti morali e giuridici si mescolano all’immagine della natura”.
Così come infinito è il principio, altrettanto, per Anassimandro, sono infiniti i mondi che, ciclicamente, tutti nascono e muoiono in maniera analoga. Il processo di generazione del cosmo e di tutti i mondi prende avvio da un eterno movimento vorticoso e circolare che avvolge l’à peiron, per cui l’infinito non è statico ma dinamico. Tale movimento provoca dapprima il distacco dall’à peiron dei contrari fondamentali: il caldo-freddo e il secco-umido. Da essi derivano poi, per condensazione e per rarefazione, tutte le altre cose. Il freddo, originariamente liquido, si raccoglie nelle cavità , costituendo i mari e l’acqua. Il fuoco trasforma il freddo in aria. La sfera del fuoco si spezza poi in tre, originando la sfera del Sole, della Luna e degli astri. Dai mari e dall’acqua, sotto l’azione del Sole, nascono i primi animali, di struttura elementare, da cui via via si sviluppano gli animali più complessi.
La Terra è immaginata in forma cilindrica, situata in equilibrio al centro dell’universo, senza bisogno di sostegni materiali.
Queste idee possono a prima vista sembrare puerili. Ma sono in modo singolare anticipatrici di teorie moderne: l’equilibrio delle forze a causa della gravitazione universale, che da sola, senza appoggi, regge la Terra e gli altri corpi celesti; l’origine della vita proveniente da animali acquatici; una prima rudimentale concezione dell’evoluzione delle specie viventi.
ANASSIMENE (sesto secolo a.C.)
Anassimene non riusciva a comprendere come fosse possibile far procedere da qualcosa di assolutamente indeterminato, come l’apeiron di Anassimandro, realtà ed eventi così molteplici e disuguali come quelli che l’esperienza quotidiana testimonia. Ritiene pertanto che il principio primo debba sì essere infinito ma non indeterminato. Individua questo principio nell’aria, tornando quindi ad identificarlo con un elemento naturale. Considera l’aria un principio che permette di dedurre in modo più logico e razionale la derivazione da essa di tutte le cose. Per la sua natura estremamente mobile, sostiene che l’aria si presta assai più ad essere concepita come perenne movimento e causa dell’origine e trasformazione delle cose per effetto del processo continuo di condensazione e rarefazione: l’aria condensandosi si raffredda e diventa acqua e poi terra; rarefacendosi e dilatandosi si riscalda e diventa fuoco.
Dagli storici della filosofia Anassimene è normalmente considerato inferiore ad Anassimandro. Ma gli antichi non erano di questo avviso. La validità dell’opinione degli antichi è stata recentemente ribadita da Giovanni Reale: “Non si può disconoscere – egli scrive – che Anassimene, con l’introduzione del processo di condensazione e rarefazione, fornisse la causa dinamica che fa derivare tutte le cose dal principio, causa di cui Talete non aveva ancora parlato e che Anassimandro aveva saputo determinare solo ispirandosi a concezioni orfiche”.
Viene in effetti semplificato il sistema un po’ macchinoso di Anassimandro. L’origine delle cose dall’aria è spiegato su base quantitativa, secondo il grado di condensazione e di rarefazione, senza ricorrere anche a spiegazioni qualitative, quali il distacco, la contrapposizione dei contrari e l’ingiustizia derivante dal loro vicendevole sopraffarsi. In tal senso si può dire che Anassimene anticipa la spiegazione meccanicistico-quantitativa della natura.
PITAGORA E I PITAGORICI
È difficile distinguere la dottrina di Pitagora (570-530 a.C.) da quelle dei suoi discepoli poichè i suoi insegnamenti erano segreti. Si preferisce perciò parlare, in generale, di Scuola pitagorica.
La Scuola Pitagorica era costituita come comunità mistica e ascetica, riservata solo agli iniziati similmente alla Scuola orfica. Tuttavia, mentre per l’orfismo la purificazione, lungo il processo della metempsicosi, avviene attraverso un’ascesi fatta di progressivi riti mistico-iniziatici, per il pitagorismo la purificazione è invece frutto del sapere e si consegue attraverso lo studio della matematica, della musica e dell’astronomia.
Due sono i filoni rinvenibili, entrambi di sapore metafisico, immateriale:
- la dottrina dei numeri
- la dottrina dell’anima
- La dottrina dei numeri
I Milesi, chiamati anche Ionici, avevano cercato in un elemento naturale il principio delle cose. Pitagora prosegue l’indagine iniziata dagli Ionici intorno al primo principio, ma grazie alla sua mentalità matematica, abituata all’astrazione, si distacca dalle apparenze sensibili e dagli elementi materiali identificando il primo principio, l’archè, con un elemento immateriale: il numero. Egli osserva che in tutte le cose esiste una regolarità matematica, numerica. Infatti, il numero esprime sia il rapporto di proporzione esistente tra le cose sia l’elemento comune di tutte le cose poichè tutte sono misurabili.
Più che dalla molteplicità delle cose Pitagora è impressionato dal loro ordine. E poichè in greco ordine si dice “cosmos“, Pitagora e i pitagorici chiamano “cosmo” l’universo. Si interrogano sulle ragioni di tale ordine e la trovano nel numero in quanto fattore di ordine, di chiarezza, di precisione e, perciò, di intelligibilità . Tutte le cose e tutte le relazioni fra di esse sono esprimibili attraverso determinazioni numeriche.
Il numero rende comprensibile la realtà delle cose poichè ne rivela la struttura quantitativa e geometrica. Per i presocratici, e quindi anche per i pitagorici, il numero è una grandezza spaziale avente forma ed estensione, è un punto geometrico solido. I numeri erano infatti rappresentati come successione ordinata di punti solidi similmente al pallottoliere. Si pensi all’uso arcaico di utilizzare dei sassolini per denotare una serie di numeri dalla quale, dal latino “calcolus” che significa per l’appunto “sassolino”, è derivata l’espressione “calcolare”.
L’identificazione del principio primordiale col numero consente a Pitagora di architettare un’ingegnosa derivazione della molteplicità dall’unità . Se la sostanza della realtà è il numero, le opposizioni tra le cose equivalgono allora ad opposizioni tra i numeri. Il numero si divide in pari e dispari e quindi anche la realtà si divide in due parti, l’una corrispondente al pari e l’altra al dispari. I numeri pari, essendo illimitati, cioè divisibili per due all’infinito, sono imperfetti perchè incompiuti, ciò secondo l’antica idea greca di infinito pensato come illimitato, e perciò imperfetto in quanto indefinito, in quanto visto come un indeterminato che non giunge mai a compimento.
I numeri dispari invece, essendo limitati, cioè delimitati da un resto quando vengono divisi per due, sono perfetti. I numeri pari e i numeri dispari sono i contrari da cui scaturisce l’armonia del cosmo: i numeri pari rappresentano tutte le determinazioni negative, il male, poichè imperfetti, e i numeri dispari quelle positive, il bene, poichè perfetti. Così come i numeri si dividono tra illimitati e limitati, anche la realtà è raffigurata come contrapposizione fra illimitato e limitato. L’illimitato è il vuoto che circonda il tutto e il mondo, il quale nasce mediante una sorta di “inspirazione”, di parziale riempimento di questo vuoto da parte di “Uno”, il primo numero.
Dalla proprietà spaziale attribuita ai numeri consegue la loro traduzione in termini geometrici. L’uno è il punto; il due la linea. Dalle linee derivano a loro volta le figure piane. Dalle figure piane nascono le figure solide e da queste ultime i corpi sensibili, composti dai quattro classici elementi: fuoco, acqua, terra e aria.
Senonchè, abbagliato dalla potenza del numero, Pitagora l’ha portato fuori dal suo campo specifico e se ne è servito quale principio metafisico monistico per spiegare tutta la realtà , mentre l’universo non contiene soltanto quantità ma anche qualità . Inoltre, come già notato da Aristotele, se i numeri danno parzialmente conto della forma delle cose, non forniscono tuttavia alcuna spiegazione del loro divenire. Ciò richiede, oltre alla causa materiale e alla causa formale, anche la causa agente, che la metafisica pitagorica dei numeri non aveva ancora preso in considerazione.
- La dottrina dell’anima
Per Pitagora l’anima non è più, come in Omero, quel fantasma che esala dall’uomo con l’ultimo respiro, ma è una potenza insita nell’uomo, la sua vera essenza, che egli ha il compito di sviluppare, di purificare e liberare.
Nell’anima Pitagora distingue tre parti: l’impulso passionale, l’intelligenza e la ragione. Mentre le prime due parti sono comuni a tutti gli organismi viventi, soltanto la ragione è propria dell’uomo ed è immortale. Viene così introdotto quel dualismo psico-fisico che sarà ripreso e accentuato da Socrate e soprattutto da Platone: il corpo concepito come prigione dell’anima.
Con la morte, strappate dalla loro connessione col corpo, le anime vagano nell’aria sopra la terra. Quelle pure salgono verso le regioni più alte; quelle impure tendono a ricadere sulla terra. Pitagora si fa promotore, a tal proposito, di un codice morale impegnativo e rigoroso. Raccomanda all’uomo di realizzare l’elemento divino che ha in se stesso, praticando la virtù mediante il dominio delle passioni e vivendo un’esistenza tesa a partecipare, grazie alla pratica della scienza, all’armonia delle sfere celesti. La virtù è additata quale mezzo più efficace per la purificazione dell’anima che il saggio, attraverso una graduale e lunga serie di reincarnazioni, potrà condurre a liberarsi dalla prigione del corpo fino al punto in cui l’anima, divenuta perfettamente virtuosa, si distaccherà completamente dalla materia salendo alla luce di tutto il cosmo. È una visione sostanzialmente spiritualistica, trascendentistica e ottimistica, che toglie allo sforzo ascetico quell’elemento di tragicità ad esso tradizionalmente connesso. Pitagora e i Pitagorici sono stati in tal modo gli iniziatori della vita contemplativa, spesa nella ricerca della verità e del bene tramite la conoscenza, che è la più alta purificazione.
ERACLITO DI EFESO (550-476 a.C. all’incirca)
Visse ad Efeso, anch’essa, come Mileto, colonia greca nell’Asia minore sulla costa ionica. Ci ha lasciato un libro intitolato “Della natura”, di cui ci sono pervenuti numerosi frammenti, scritto con uno stile volutamente oscuro ed oracolare, riservato solo ai sapienti.
Si deve ad Eraclito l’ispirazione di uno dei grandi sistemi metafisici che saranno elaborati in seguito, vale a dire l’identificazione della realtà col suo perenne divenire sostenuto dalla dialettica degli opposti, successivamente ripresa, sia pur con significative variazioni, da molti altri filosofi, a partire dagli stoici fino ad Heidegger, passando per Spinoza, Schelling, Hegel, Marx.
Tre sono gli assunti che fanno del pensiero di Eraclito un sistema metafisico pressochè compiuto:
1) il principio del logos;
2) l’assolutizzazione del divenire;
3) la dialettica dei contrari.
- Il logos
La parola “logos” si può tradurre in molti modi: pensiero, parola, dottrina, mente, norma, legge, ecc. In Eraclito abbraccia tutti questi modi nel loro insieme. Si possono individuare, in particolare, tre significati strettamente collegati. Il logos è:
- la legge universale del cosmo, la legge del divenire come opposizione-unità dei contrari;
- la ragione umana, il pensiero, che comprende la legge del mondo;
- il sapere, cioè la filosofia, che sa spiegare la realtà e la verità profonda delle cose.
Il logos di Eraclito è il principio primo, l’archè, fonte di ogni realtà , ordine, legge, dottrina. In tal senso ha funzione metafisico-ontologica nonchè, secondariamente, funzione morale e pedagogica.
Il logos eracliteo, in aggiunta, non è più un principio materiale come per i Milesi, nè un principio matematico come in Pitagora poichè entrambi, osserva Eraclito, non oltrepassano l’ordine quantitativo e perciò non sono in grado di spiegare le attività più nobili dell’uomo, come il parlare, il pensare, il comunicare, il legiferare.
Quale principio primo di tutte le cose il logos riveste proprietà trascendenti rispetto all’uomo e alle cose. Possiede indubbiamente una trascendenza gnoseologica e semantica; esso si sottrae a tutto quanto la mente umana riesce a pensare e a dire di lui: “Questo logos che è sempre, gli uomini non intendono sia prima di averlo ascoltato sia dopo averlo ascoltato”. Non altrettanto sembra potersi asserire di una trascendenza anche ontologica del logos eracliteo. Certo, il logos è più di ogni singola realtà in quanto le abbraccia tutte. Ma non è una realtà distinta dal tutto: è il suo principio interiore, la sua ragione, l’anima dell’universo. È divino nel senso di sommo, eccellente, però non è una divinità ; è semmai la dimensione sacra dell’universo. Anche quella di Eraclito, similmente ai primi filosofi, è una metafisica di stampo immanentistico, interna alla realtà del mondo, ovvero è un immanentismo dialettico-naturalistico come qualcuno l’ha definita.
- Il divenire
Più che dall’esperienza del molteplice, come nel caso dei Milesi, Eraclito è colpito dall’esperienza del divenire; tutto è divenire, tutto muta e si trasforma: il mondo, l’uomo, le cose. È questa un’affermazione che già ha una valenza metafisica. Essa, infatti, non va intesa come ovvia constatazione del fatto che tutte le cose sono soggette a mutazione, bensì è interpretabile come assolutizzazione di un’esperienza incontestabile: l’esperienza che nulla in questo mondo ha il carattere della stabilità , di una solida ed indistruttibile consistenza, ma che tutto ha invece il carattere della transitorietà . È la categorica affermazione della assoluta accidentalità del mondo dell’esperienza. Tutto scorre: “non è possibile scendere due volte nello stesso fiume, nè toccare due volte, nel medesimo stato, una sostanza mortale… Acque sempre nuove lambiscono quelli che entrano negli stessi fiumi”.
Come per Anassimandro, anche per Eraclito le cose nascono per effetto del continuo passare da un contrario all’altro: le cose fredde si riscaldano, quelle calde si raffreddano, le cose umide si disseccano, quelle secche si inumidiscono, il giovane invecchia, il vivo muore, ma da ciò che muore rinasce un’altra vita, e così via. Tale è la struttura dinamica della realtà , caratterizzata da una continua contrapposizione, da una continua guerra (in greco “polemos”) fra i contrari, fra gli opposti, che si avvicendano l’uno all’altro: “Polemos è il padre di tutte le cose”.
Il fuoco è raffigurato come simbolo dell’incessante divenire e della perenne animazione di tutte le cose, escludente ogni cominciamento primo. “Quest’ordine del mondo, che è lo stesso per tutti, non lo fece nè uno degli dei nè uno degli uomini, ma è sempre stato ed è e sarà fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne”. Due sono le vie che spiegano in che modo dal fuoco primitivo abbiano origine le varie mutazioni: “la via in giù e la via in su“. La prima parte dal fuoco che, condensandosi, diventa umido e che, quando viene compresso, si trasforma in acqua; l’acqua poi, congelandosi, si trasforma in terra. La seconda via procede in senso inverso: dal liquefarsi della terra nasce l’acqua e da questa, per evaporazione e condensazione, si giunge al fuoco. Anche per quanto riguarda le anime degli uomini alcune sono fredde e umide come l’acqua (gli uomini che non sanno nulla) e altre, poche, sono calde e secche come il fuoco (i sapienti). Al proprio termine questo mondo tornerà al suo principio per essere distrutto in una totale conflagrazione. Ma, per la legge dell’eterno ritorno, esso rinascerà dal medesimo principio; il logos divino lo rifarà come per gioco: “L’evo è un bambino che gioca, spostando qua e là i pezzi del gioco”.
Eraclito assolutizza dunque il divenire, ponendolo come realtà suprema senza cercare ulteriori spiegazioni della sua origine. Ciò, ha criticato qualcuno, può apparire più un teorema che una spiegazione metafisica, affermando che Eraclito non argomenta ma proclama: poichè il divenire è asserito come il tutto, egli si accontenta, come recita il primo frammento della sua opera, di “scomporre ciascuna cosa secondo la sua intima natura e dire com’è”. Nondimeno, la sua filosofia ci consegna una perspicace descrizione della struttura dinamica e delle modalità percettive della realtà , che oggi si chiamerebbe “fenomenologia” del divenire. Infatti Eraclito preferisce quelle cose “di cui c’è vista, udito, esperienza”.
La dialettica dei contrari
Anassimandro aveva pensato che l’incessante contrapposizione dei contrari intaccasse in qualche modo l’unità della realtà e perciò aveva ritenuto che i contrari si risolvessero di volta in volta nel comune unitario infinito-indefinito (l’à peiron) da cui erano fatti derivare. Ma per Eraclito solo la gente comune può pensare, ingenuamente, che un contrario possa esistere senza l’altro. In realtà ciascun contrario è strettamente legato al suo opposto. Anzi, solo nella reciproca relazione i contrari acquistano significato. Non si può comprendere il bene se non in opposizione al male; il giorno in opposizione alla notte; la salute in opposizione alla malattia; la vita in opposizione alla morte e viceversa.
Parimenti, al sommo livello, anche la consistenza piena dell’essere, della realtà in generale, risalta in opposizione logica al non essere. Opposizione logica e non concreta perchè, ovviamente, il non essere, la non realtà , non esiste, pena il contraddittorio diventare realtà della non realtà . Nondimeno il non essere ha funzione logico-oppositiva indicante “il non essere l’essere”. Ebbene, nel necessario rapporto fra i contrari Eraclito riconosce una loro sottostante e sostanziale unità , che non significa però eguaglianza. La realtà è sempre unità nell’opposizione. Solo opponendosi a vicenda i contrari danno senso uno all’altro ma, in radice, si rivela la loro basilare unione che si manifesta come nascosta armonia. Se ci si ferma all’apparenza il mondo può sembrare caos e disordine, ma il saggio sa comprendere l’armoniosa unità di fondo degli opposti.
L’armonia di cui parla Eraclito non è il riconoscimento di un disegno divino, ma la legge del fato, la “Dike” (la Giustizia) inesorabile, la necessità indeclinabile, “armonia invisibile che vale di più della visibile”. È l’accettazione stoica, serena ma non gioiosa, di quanto accade quotidianamente.
A meno che non si assuma l’atteggiamento, che sarà di Nietzsche, di partecipazione dionisiaca al gioco dell’universo, in cui tragedie e commedie si alternano e si mescolano continuamente.
PARMENIDE
Nasce ad Elea (a sud di Paestum, nell’attuale Campania) intorno al 510 a.C. Ha dato ottime leggi alla sua città ed è stato uomo onorato dai suoi concittadini. È considerato il fondatore della cosiddetta “Scuola elatica”, di cui Zenone e Melisso sono stati i più noti allievi. È morto verso la metà del quinto secolo avanti Cristo.
Si deve a Parmenide l’inizio di una nuova fase della filosofia, non più interessata allo studio della natura, del cosmo e della sua origine, ma interessata invece al problema di quale sia la vera conoscenza e la vera realtà . Così, al posto della cosmologia e della filosofia della natura, nascono la gnoseologia e l’ontologia ovvero, rispettivamente, la filosofia della conoscenza e la filosofia dell’essere, di ciò che è. La sua dottrina è esposta in un poema di cui ci restano 154 versi.
Due sono i poli attorno a cui si aggira la speculazione di Parmenide: il conoscere e l’esistere. Nel primo vi sono tre modalità : verità , errore, opinione. Altrettante ve ne sono nel secondo: l’essere, il nulla (non essere) e il divenire. La singolarità della soluzione parmenidea è l’identificazione del pensiero con l’essere mentre, in genere, nella mentalità greca antica il pensiero è invece rispecchiamento dell’essere.
La conoscenza
Prima di occuparsi del principio primo delle cose Parmenide affronta il problema gnoseologico, che costituisce pur sempre la porta d’ingresso della metafisica, stante la preliminare necessità di verificare se l’umana conoscenza è in grado o meno di compiere il salto metafisico.
Protagonista del poema di Parmenide è una dea, che simboleggia la verità , la quale, nel prologo, rivela che ci sono due vie lungo le quali l’uomo procede nella conoscenza: la prima via è quella della verità , certa e sicura; la seconda è quella dell’opinione, fallace e mutevole. Due sono, dunque, le forme del conoscere: quella della ragione, che si regola secondo le esigenze della logica, e quella dei sensi, che si regge sui soli dati, superficiali, dell’esperienza. La prima via conduce alla certezza, a cui si accompagna la verità , la seconda conduce all’opinione, a cui si accompagna l’errore. Collegando l’essere con la verità e il non essere con la falsità , Parmenide parte dall’osservazione che è vero ciò che è ed è falso ciò che non è. E solo il pensiero, coincidente con l’essere, è in grado di conoscere la realtà vera e profonda, mentre i sensi si fermano all’apparenza delle cose.
Ma sono davvero due vie alternative e inconciliabili o sono invece due percorsi che si possono intrecciare ed anche integrarsi? In passato gli studiosi, capeggiati da Aristotele, consideravano antitetiche le due vie. Eppure già nell’antichità vi sono stati interpreti, come Plutarco e Simplicio, che ne sostenevano la conciliabilità . La tesi della complementarietà è stata ripresa recentemente da Eberhard Jungel e da Virgilio Melchiorre. Questa tesi pare conforme alle battute conclusive del prologo parmenideo, là dove la dea dice di non rinnegare totalmente quanto procede dalla via dei sensi e dell’opinione, bensì di porsi in grado di saper apprendere “come l’apparenza debba configurarsi perchè possa apparire verosimile”. Si potrebbe dire, sostengono i due autori citati, che la via dell’opinione corrisponde alla via della scienza, la quale non può andare oltre il mondo della materia, il mondo fenomenico, mentre la via della pura ragione è la via della metafisica, la quale non si preoccupa di descrivere e di calcolare il mondo dei fenomeni ma cerca di scoprirne le ultime ragioni e il fondamento. La critica parmenidea della via dell’opinione non andrebbe presa quindi come un rifiuto ma come una delimitazione di ambito e di valore. È la critica rivolta da un metafisico alla scienza qualora assuma pretese totalizzanti. Ma, invero, vale anche il contrario.
- L’essere
Parmenide giunge a concepire la potenza, la perfezione, il fascino dell’essere tenendosi fermo nella via della ragione: la ragione comprende che solo l’essere è e che al di fuori dell’essere nulla è: “l’essere è e non può non essere, mentre il non essere non è e non può essere”. Ciò che sta a cuore a Parmenide è soprattutto la ragione, il logos, e i suoi diritti insindacabili. Diritto primo della ragione è conoscere la verità , la quale compete esclusivamente all’essere poichè esso solo può sottrarsi al nulla. Essere e ragione si richiamano a vicenda. Per intrinseca necessità (“dike”) la ragione non può pensare che l’essere non sia.
Si innesta qui il rapporto tra essere e conoscere, che si mostra in Parmenide come rapporto di identità : “Lo stesso è pensare ed essere”. Quello di Parmenide è il problema della realtà autentica, dell’essere autentico della realtà , ma anche, contemporaneamente, il problema della ragione e del linguaggio che l’uomo adopera per parlare delle cose e della realtà . Come Eduard Zeller ha parafrasato “nulla è fuori dell’essere, ed ogni pensiero è pensiero dell’essere”; oppure, secondo Pilo Albertelli, “se si pensa, si pensa a ciò che è, all’essere“. Parmenide non distingue tra realtà e pensiero nè distingue il pensiero come facoltà da un lato e come pensato dall’altro. Sostiene che realtà , pensiero e parola sono i tre aspetti fondamentali dell’essere e tutti obbediscono ad una medesima legge, che è contemporaneamente legge logica e legge della realtà : l’essere coincide con la logica e con il linguaggio che descrive la realtà ; l’ordine del mondo coincide con l’ordine del pensiero che lo pensa e del linguaggio che lo esprime. Un’interpretazione idealistica al riguardo è peraltro fuori luogo, poichè Parmenide assegna all’essere attributi di chiara oggettività : “senza l’essere nel quale è espresso, non troverai il pensare”.
Ma allora che cosa Parmenide intende davvero per “essere”? L’essere è da Parmenide inteso come l’essere puro, assoluto, l’essere come totalità di ciò che è, per cui il non essere che gli si contrappone è il nulla assoluto, l’assolutamente niente, ed il niente, il non essere, non solo non esiste, ma neppure può essere pensato nè descritto.
L’indagine viene rivolta non più al comune principio delle cose di natura ma all’individuazione di un prioritario principio di verità nell’intento di superare la barriera fenomenologica e riflettendo, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale, sul genere apparente del divenire delle cose. Il principio non è più identificato in un determinato elemento naturale ma nell’essere in quanto tale, ontologicamente concepito come superiore entità trascendente la mutevolezza dell’esperienza sensibile. Nell’essere è posta la realtà autentica, che ha portata più ampia, più vera e stabile rispetto alla realtà dei sensi. La conoscenza sensibile si ferma alla superficie delle cose, mentre la conoscenza secondo logica e ragione è basata su principi, regole e concetti che rimangono sempre fissi e immutabili, per cui l’essere, il loro essere, resta tale costantemente e non può diventare anche non essere.
In tal senso due sono i meriti di Parmenide:
- il primo merito sta nell’aver riposto il principio primo in una realtà , l’essere, che trascende ogni altra realtà sia di ordine fisico (acqua, aria, fuoco, ecc.) che immaginativo. Si tratta comunque di un trascendere orizzontale e non verticale, pur sempre immanente: è il trascendere del tutto rispetto alle parti;
- il secondo merito sta nell’aver concepito il mondo non più come una somma di enti, ricondotti invece ad univoco principio universale: ogni ente, prima di essere qualcosa di determinato, deve innanzitutto essere, esistere.
Nel linguaggio degli ionici il reale si esprimeva ancora con un plurale: “tà onta” (le cose che esistono); l’essere assumeva, qualunque ne fosse l’origine, la forma visibile di una pluralità di cose. Al contrario in Parmenide, per la prima volta, l’essere si esprime con un singolare: “to eòn”. Non si tratta più di questi o quegli enti ma dell’essere unico e totale. È un cambio di vocabolario che traduce l’avvento di una nuova nozione dell’essere: non più le cose diverse che l’esperienza sensibile coglie, ma il superiore principio intelligibile del logos, colto dalla ragione e non dai sensi, che si esprime attraverso il linguaggio conformemente all’esigenza della non contraddizione. È l’astrazione di un essere puramente intelligibile, che esclude la pluralità , la divisione, il cambiamento e che si costituisce in opposizione al reale sensibile e al suo perenne divenire. È quella tensione all’unità , all’Uno e all’Identico, che si esprime quando alla domanda “come emerge l’ordine dal caos?” si sostituisce la domanda “che c’è di immutabile nella realtà ?”.
Dell’essere Parmenide esalta le singolari virtù: l’essere è ingenerato, imperituro, eterno, perfetto, compiuto, immobile, indivisibile; penetra tutto: “è tutto pieno di essere”.
Nella filosofia parmenidea dell’essere, attestano vari studiosi, la riflessione matematica ha avuto una parte decisiva. Essa, per il suo metodo dimostrativo e per il carattere ideale dei suoi oggetti, acquista valore di modello. Applicando il numero all’estensione, ha posto il problema del rapporto dell’uno e del molteplice, dell’identico e del diverso, analizzati con logico rigore. La non contraddizione è, secondo Parmenide, l’assoluta e univoca ragione immanente nell’essere e nel logos: l’essere è, il non essere non è. Espresso in questa forma categorica il nuovo principio compie un balzo logico, ma nello stesso tempo si trova separato dalla realtà fisica del divenire.
Il divenire
Respinto dall’essere e dal vero, il divenire viene ridotto da Parmenide ad apparenza priva di consistenza ontologica. Ma siamo certi di siffatta assoluta negazione del divenire, come gran parte degli interpreti afferma, oppure è più corretto ritenere che ciò che Parmenide rifiuta è piuttosto l’assolutizzazione del divenire quale teorizzata da Eraclito? Indubbiamente, scrive W. Jaeger, “l’idea fondamentale di Parmenide è che la filosofia ionica della natura, la quale cercava di afferrare nel nascere, nel divenire e nel perire l’origine incessantemente mossa di tutte le cose, non soddisfa il rigoroso concetto dell’essere”.
Ma questo non implica necessariamente l’eliminazione di un qualsiasi divenire. Se è vero che Parmenide non condanna la scienza fisica ma la sua assolutizzazione, si può concludere che ciò possa valere anche per il divenire. In particolare sono le assolutizzazioni di certi contrari che Parmenide contrasta.
Gli uomini hanno preteso non solo di dar nome a forme contrapposte del mondo dei fenomeni, ma anche di dar conto del reale ponendosi ora solo da un lato ora solo dall’altro, come se si trattasse di realtà sussistenti separatamente, mentre “l’essere non è divisibile perchè è tutto uguale; non c’è un punto in cui meno prevalga, ma è tutto pieno di essere”. L’errore degli uomini sta semmai nell’intendere le differenze fenomenologiche come differenze ontologiche.
Limiti
Significative sono le acquisizioni della filosofia parmenidea. Innanzitutto si enunciano per la prima volta, quanto meno indirettamente, i principi di identità , di non contraddizione e del terzo escluso, stabilendo così le basi della logica classica. (LEGGI ANCHE: LA LOGICA CLASSICA). In secondo luogo, Parmenide per primo pensa consapevolmente che il pensiero è l’essere e, a sua volta, l’essere è pensiero. Solo ammettendo la validità di questa identificazione è possibile, secondo Parmenide, conseguire la certezza che nel puro pensiero non si realizza tanto una riflessione su pensati ad esso esterni quanto invece il trovarsi già col pensiero logico nell’essere stesso: il pensare, nel senso pieno del “logos”, è la vera realtà in cui l’essere si fa da sè presente come l’assolutamente opposto all’impensabilità nulla. Il pensiero scorge che il non essere ha solo valore logico-oppositivo, non sostanziale, all’essere.
Peraltro, qui si evidenziano anche i limiti della speculazione parmenidea: le leggi della logica diventano le leggi della realtà . Così, la metafisica di Parmenide non è più una metafisica dell’esperienza ma una metafisica inesorabilmente deduttiva, in cui l’essere viene piegato alle esigenze del logos. La stabilità dell’essere è davvero tale solo nel puro essere, nell’essere assoluto, eterno, perfetto, immutabile, mentre essa non è più garantita quando esso è contingente e caduco. In Parmenide le caratteristiche dell’essere sono considerate solo in funzione di una riflessione logica, ma senza pensare che tali caratteristiche appartengono piuttosto al logos che all’essere in concreto.
Un secondo limite attiene all’uso esclusivamente sostantivato del verbo essere. Parmenide ignora, cosa tipica a quell’epoca, il significato e la funzione anche copulativa del verbo essere, che serve ad attribuire un predicato al soggetto, configurandosi allora, in tal senso, numerosi modi di essere (è bello; è brutto; è giusto; è sbagliato; ecc.). Conservando invece l’abitudine di sostantivare il verbo essere, esso diventa “l’essere” come reificazione di un concetto, ove il concetto astratto sostituisce l’oggetto concreto dimenticandosi, come dice il filosofo Fuerbach, che “gli oggetti sono dati ma i concetti sono posti”. La copula si applica ad un sostantivo e non ha senso applicarla ad un verbo, in questo caso al verbo essere. Dire che un ente possiede certi attributi ha senso, ma è mera tautologia dire che l’essere è. In effetti, interrogandosi sul non essere, ovvero ponendo la domanda “che cos’è il nulla?”, Parmenide si imbatte nel “paradosso del non essere“: da un lato il non essere è niente per sua stessa definizione; dall’altro lato esso è però anche qualcosa, è negazione logica della negazione, negazione, per coerenza logica, di ogni consistenza del non essere. Affascinato dall’assoluto e dall’immutabile, sfugge a Parmenide l’alterità dell’essere la quale, accanto all’univoca totalità del reale, di per sè veritieramente contrapposta al nulla (o l’uno o l’altro, il terzo escluso), consente d’altronde la pluralità e il divenire degli esseri relativi, tra loro diversi, come dirà Platone), nonchè i diversi modi di predicare l’essere in ciò che è e che diviene, come dirà Aristotele.
Le teorie di Parmenide, per il loro carattere innovativo e poichè assolutamente contrarie all’evidenza del senso comune, provocarono enorme stupore e suscitarono vivaci polemiche. I discepoli di Parmenide, soprattutto Zenone e Melisso, si proposero allora, per rafforzare la tesi del loro maestro, di dimostrare con esempi concreti, ricorrendo a paradossi, che davvero la molteplicità e il divenire degli enti non sono reali ma solo apparenti, mentre reale è solo l’essere unico e immutabile quale da Parmenide sostenuto. Contro il movimento e il divenire delle cose valga rammentare l’argomento di Achille e la tartaruga e l’argomento della freccia, avanzati da Zenone. Il veloce Achille non potrà mai raggiungere in una corsa la tartaruga se ad essa sia stato concesso un vantaggio iniziale, anche di un solo passo, giacchè quando Achille raggiungerà il punto dal quale è partita la tartaruga, essa avrà già percorso un certo tratto; quando poi Achille percorrerà questo secondo tratto, la tartaruga, di nuovo, avrà percorso un tratto ulteriore, e così via all’infinito. Altrettanto, una freccia scagliata contro un bersaglio è invece immobile poichè, in ogni istante in cui è divisibile il tempo del volo della freccia, essa è ferma nello spazio che occupa in quell’istante medesimo. Essendo immobile in ogni istante, lo è anche nella totalità della sua traiettoria. Solo apparentemente la freccia si muove, mentre in realtà è sempre fissa. E’ pertanto assurdo pensare che i corpi si muovano. Melisso, a sua volta, ribadisce l’infinità dell’essere perchè, se fosse invece finito, dovrebbe confinare con un vuoto e quindi con un “non essere” (il vuoto), il che è impossibile posto che il non essere non esiste. In quanto infinito, l’essere è necessariamente anche unico dato che, se vi fossero due o più esseri, questi non potrebbero essere infiniti perchè si limiterebbero reciprocamente. Come unico ed infinito l’essere è anche incorporeo, privo di spessore, di parti e di qualsiasi figura perchè, se avesse corpo e spessore, sarebbe composto di parti e perciò non sarebbe più unico. Privo di figura, l’essere neppure può avere la perfetta forma di sfera. L’essere è quell’uno infinito che non lascia nulla fuori di sè: è il tutto. Di conseguenza, l’essere è anche inalterabile poichè, se mutasse, diverrebbe altro da sè, un “non essere” più se stesso, il che è assurdo. Contro l’opinione comune del divenire e della pluralità delle cose, anche Melisso ne rimarca l’impossibilità . Le cose molteplici che i sensi parrebbero attestare esisterebbero alla sola condizione che ciascuna di esse permanesse sempre identica. Invece l’esperienza ci mostra che le cose mutano continuamente, il che però è solo apparenza. Occorre negare la validità dei sensi. Ritenere fondato il mutamento e la molteplicità delle cose significherebbe, contro la logica, ammettere che anche il “non essere” (il non essere più come e quanto quelle di prima) esiste.
Sennonchè i paradossi addotti sono validi nel quadro delle grandezze infinite matematiche e non già nella natura fisica ove, come dirà Aristotele, “esiste solo il finito e solo distanze finite”.
I FILOSOFI PLURALISTI
Dopo Parmenide i filosofi successivi non potevano ignorare il rigore e la forza logica del suo pensiero, per cui l’essere è o non è, da cui l’assurdità del pensare che, nel divenire, una cosa che “è” divenga un “non essere” più tale, giacchè il non essere è il nulla, è niente, ed il niente non esiste. Tuttavia nemmeno poteva essere negata, d’altro lato, l’evidenza del divenire e la molteplicità dei fenomeni, come asserito da Eraclito. Anche il conoscere, si sosteneva, non può essere esclusivamente attribuito alla ragione logico-astratta dovendosi pur tener conto, inoltre, della conoscenza sensibile. Si trattava allora di conciliare il principio parmenideo dell’immutabilità dell’essere con quello eracliteo del continuo divenire.
Nel cercare una sintesi è stata pertanto concepita la sussistenza di una pluralità di elementi, ciascuno eterno e immutabile come l’essere di Parmenide, costituenti il sostrato immodificabile di tutte le cose, ma tali che essi, combinandosi variamente fra loro, potessero spiegare anche il divenire, la varietà e molteplicità delle diverse cose del mondo quali vediamo. In tal senso non vi è né nascita né morte delle cose ma solo varie combinazioni di elementi in sé perenni.
I filosofi che elaborarono questa teoria, ritenendo plurimi, gli elementi di base costitutivi della natura, sono stati per ciò stesso chiamati “filosofi pluralisti” o “fisici pluralisti”.
Al monismo ontologico (il sussistere di un unico e solo principio) degli eleati si è venuto così a contrapporre un pluralismo ontologico di vario genere. Creatori di questo nuovo tipo di ontologia sono stati Empedocle, Anassagora e Democrito, ognuno dei quali ha dato vita a una propria versione pluralistica: i quattro elementi di Empedocle, le “omeoremie” di Anassagora, gli atomi di Democrito.
EMPEDOCLE: LE QUATTRO RADICI
Nasce ad Agrigento, intorno al 484 a.C., da famiglia nobile. Si impegna in politica e diviene capo del partito democratico. È stato al tempo stesso scienziato e medico ed ha avuto fama di mago. Ha scritto due opere in versi poetici: “Della natura” e “Le purificazioni”. Muore nel 424 a.C., a 60 anni.
Per lo più Empedocle ha avuto maggior considerazione dagli antichi anziché dai moderni. Da Hegel è considerato più poeta che vero filosofo, scorgendo in lui un pensatore incline al compromesso, che cerca di mettere tutti d’accordo: ionici, eleati, pitagorici, Eraclito. Ma la storiografia più recente ha corretto i giudizi negativi, pur essendo la sua dottrina contaminata da temi orfici, mitici e da atteggiamenti taumaturgici. “Empedocle -scrive Bignone- è sì un profeta, ma un profeta che scende tra gli uomini per vivere fra loro… Parla per convincere e persuadere, scegliendo la forma poetica, più penetrante negli animi… Ogni aspetto del suo pensiero non si fissa in una sentenza rigida come una legge, si tramuta spesso, invece, in compartecipe dramma interiore di fronte all’umano destino”. Egli è insieme scienziato, poeta e mago. Le concezioni magico-orfiche di Empedocle sono espresse soprattutto nel poema “Le purificazioni”, ove l’anima dell’uomo è dipinta come un demone bandito dall’Olimpo per una colpa originaria e gettato nel mondo per espiare. Al che Empedocle si preoccupa, di seguito, di indicare le regole di vita atte a purificare l’anima e liberarla dai cicli delle reincarnazioni affinché ritorni stabilmente tra gli dei.
Come Parmenide, anche Empedocle è convinto che l’esser non possa né nascere né perire, che non possa venire dal nulla e ritornare nel nulla poiché il nulla è non essere, assolutamente niente. Nascita e morte degli uomini e delle cose, quindi, non esistono. Ciò che ci appare come nascita e come morte, come continuo divenire, trasformarsi e sparire delle cose, deriva invece dal mescolarsi e dividersi di elementi fondamentali che compongono le cose stesse, i quali permangono tuttavia in sé eternamente uguali e indistruttibili. Tali elementi, chiamati “radici di tutte le cose”, sono quelli classici, l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco, conformemente alla constatazione dell’esperienza che sembra attestare che tutto provenga da essi.
Sorge così, in Empedocle per primo, il concetto di “elemento”, concepito come un qualcosa di originario e immodificabile ma in grado di unirsi o separarsi con un altro elemento. Nasce la concezione pluralistica della realtà, che supera il monismo sia degli ionici che degli eleati.
I quattro elementi, o le quattro radici, unendosi danno origine alle cose e separandosi danno origine al loro trasformarsi e scomparire. Essi costituiscono pertanto un sottosuolo perenne e immutabile della realtà che Empedocle, come scienziato, si rifiuta di collocare nella dimensione impalpabile ed astratta dell’essere parmenideo ma lo ripone in sostanze concrete, tali da soddisfare l’esigenza dell’immutabilità dell’essere assieme alla sua diveniente molteplicità.
I quattro elementi però, aggiunge, non sono da soli sufficienti per dar conto del divenire. Per spiegarlo Empedocle introduce due ulteriori elementi, di ascendenza mitologica, due potenze: l’Amore e l’Odio, ovvero l’Armonia e la Discordia.
Queste potenze, che oggi potremmo chiamare attrazione e repulsione, si alternano a vicenda, prevalendo ciclicamente una sull’altra e dando luogo a continui cicli cosmici. Quando predomina l’Amore tutti gli elementi si raccolgono in unità; non vi sono cose distinte ma c’è un Tutto uniforme, una compatta unità chiamata “Uno” o “Sfero”. Quando predomina l’Odio gli elementi si separano dallo Sfero e si ha il Caos. Neppure in questa fase del ciclo cosmico esistono il mondo, le singole cose e il loro divenire. Essi nascono invece nelle due fasi intermedie, quando l’Amore comincia a riemergere dal Caos e, riunificando gli elementi, produce un progressivo molteplice formarsi delle cose, oppure quando comincia ad agire l’Odio, che separa gli elementi traendoli fuori dalla compatta unità dello Sfero, producendo una progressiva trasformazione e scomparsa delle cose.
Amore e Odio non sono concepiti come forze spirituali, ma fisiche, naturali, intramondane. La storia dell’universo si svolge secondo la legge inflessibile ed eterna dell’ordine divino, nel ciclico avvicendarsi di armonia e discordia. Soprattutto all’ordine e all’armonia è rivolta l’attenzione di Empedocle. Egli non contrappone, come gli eleati, la conoscenza filosofica a quella scientifica ma cerca di accordarle. Riconosce i limiti della conoscenza meramente empirica, che impedisce all’uomo di giungere pienamente alla verità delle cose, e trova il giusto rimedio nella superiore conoscenza della ragione. Il punto di partenza sta nella concretezza della conoscenza sensibile, mentre è opera della ragione l’unificazione concettuale e il potenziamento dei gradi inferiori di conoscenza, così come pure è opera della ragione la scoperta delle radici tutte le cose.
ANASSAGORA: LA TEORIA DEI SEMI E DELL’INTELLIGENZA ORDINATRICE
Nato a Clazomene, nella Ionia (Asia Minore), nel 499 a.C., si trasferisce ad Atene, ove introduce lo studio della filosofia, operandovi per un trentennio. È stato amico di Pericle. Perseguitato perché aveva negato il carattere divino dei corpi celesti, si rifugia a Lampsaco, nella Misia, dove muore nel 428 a.C. Ha scritto un trattato “Sulla natura”.
La via del pluralismo ontologico tracciata da Empedocle viene percorsa anche dal suo contemporaneo Anassagora. Egli la libera però dal pesante ingombro del mito e la fa avanzare più speditamente nel linguaggio chiaro e preciso del logos. “Anassagora, scrive W. Jaeger, è lo scienziato puro. La sua indole è più limitata rispetto alla focosa anima poetica e profetica di Empedocle… Ma entro i suoi limiti la mente di Anassagora è più logica e unitaria. Egli è completamente dedito all’interpretazione scientifica dei fenomeni naturali”. Con lui la scienza della natura acquista più chiara fisionomia di disciplina autonoma, sgombra da elementi mitico-antropomorfici.
Come in Empedocle, preoccupazione principale di Anassagora è di conciliare Parmenide con Eraclito. Da buon scienziato non è disposto a rinunciare al mondo dei fenomeni, ma allo stesso tempo, da fine filosofo, avverte anche l’esigenza di collegare il mondo dei fenomeni ad un comune superiore principio metafisico. In entrambi i campi Anassagora supera Empedocle: con la dottrina delle omeomerie nel campo della scienza e con la dottrina del Nous in quello della metafisica.
Per Anassagora gli elementi costitutivi di fondo non possono essere soltanto le quattro radici di Empedocle perché da sole non bastano a spiegare l’innumerevole varietà delle cose. Gli elementi devono essere invece infiniti, infinitamente vari come le cose le quali, pertanto, son fatte derivare da una infinità di “semi”, intesi come particelle piccolissime e invisibili di materia e di qualità diverse: vi sono semi di oro, di pietra, di carne, di ossa, ecc. Poiché i semi rimangono intrinsecamente sempre uguali a se stessi, sono stati chiamati da Aristotele “omeomerie”, termine significante, appunto, parti uguali. I semi sono infinitamente divisibili e infinitamente aggregabili ma ognuno, rimanendo sempre uguale a se stesso, conserva per ciò stesso le caratteristiche dell’eternità e della immutabilità dell’essere di Parmenide.
Ogni cosa deriva dal tipo di semi dai quali è in prevalenza costituita, però in ciascuna vi sono pure, in minor quantità, i semi di tutte le altre cose. Perciò -dice Anassagora- “Tutto è in tutto”. In ogni cosa c’è parte di ogni altra cosa. Ognuna, pertanto, è una ben ordinata mescolanza in cui esistono, in diversa proporzione, i semi di tutte le cose giacché, ad esempio, se l’erba mangiata dagli animali diventa carne, vi devono essere particelle di carne anche nell’erba poiché la carne non può provenire da ciò che carne non è. Poiché tutto è in tutto, per conseguenza è possibile che tutto nasca dal tutto: il sorgere, il crescere e trasformarsi delle cose. Nulla nasce dal nulla.
All’origine tutti i semi formavano un unico insieme immoto e caotico in cui nessuno di essi era discernibile. Successivamente, l’intervento di un’intelligenza ordinatrice divina, chiamata da Anassagora “Nous” (=intelligenza in greco), imprimendo alla massa indistinta e originaria dei semi un energico moto di rotazione, produsse la separazione e la selezione dei semi in ben ordinate combinazioni secondo la loro omogeneità, dando avvio all’avvento del cosmo. L’indiscernibile divenne allora discernibile ed i corpi iniziarono ad esistere acquistando le loro proprietà qualitative. Il movimento turbinoso separò i semi secondo l’opposizione del caldo e del freddo, della luce e dell’oscurità, del rarefatto e del denso, dell’umido e dell’asciutto. Questo stesso movimento staccò dalla terra masse che si infiammarono, formando gli astri e il Sole. Gli animali e l’uomo si formarono dai semi provenienti dall’aria, avvolgenti tutta la terra.
Mentre per Empedocle la separazione dei quattro elementi dall’unità dello Sfero, e quindi la formazione del cosmo e delle cose divenienti, è ciclica, per Anassagora l’originaria separazione dei semi dall’indistinto insieme primigenio, causata dall’iniziale vigoroso moto rotatorio, è definitiva: ciò comporta, in luogo di quella circolare, una concezione rettilinea del tempo e della storia, che Anassagora anticipa per la prima volta.
In aggiunta, ancor più che al concetto di omeomerie, il nome di Anassagora è legato a quello del Nous, grazie al quale egli ha fatto compiere alla metafisica un significativo passo in avanti verso un modello trascendentistico, svincolato dalla commistione mitologica concernente la contesa tra Amore e Odio di cui si era servito Empedocle. Il caos non può diventare cosmo se non per l’intervento del Nous. Se in Anassagora ogni cosa contiene parti di tutte le altre cose, è peraltro il Nous, illimitata intelligenza indipendente e non mescolata ad alcuna cosa, che dà ordine alle cose del mondo. Profondamente innovativa è siffatta intuizione di un principio intelligibile distinto dal mondo, dalle cose e anche dai semi, ossia trascendente, puro, infinito e dotato di conoscenza e di dominio su tutto. Il pensiero filosofico diventa più raffinato e si avvicina ad una concezione immateriale della realtà. Per la prima volta, con Anassagora, appare la teoria di una mente e di una intelligenza ordinatrice.
Da questo dottrina prenderà le mosse la metafisica di Platone e di Aristotele, pur se l’azione del Nous rimane ancora più di tipo fisico che spirituale: non produce la materia e i semi, che sono eterni, ma è la forza, il principio intramondano, che vi mette ordine.
Gli attributi che Anassagora assegna al Nous sono dunque:
- quello della separatezza dal mondo materiale, ovvero l’immaterialità: “a nessuna cosa è mescolato…se fosse mischiato con qualche cosa… non avrebbe più potere su alcuna cosa”;
- quello dell’onniscienza: “ha cognizione completa di tutto”;
- quello dell’onnipotenza: “su tutte le cose ha potenza l’intelletto”;
- quello di fattore del divenire: “sull’intera rivoluzione l’intelletto ebbe potere si dà avviarne l’inizio”;
- quello di principio dell’ordine: “tutto l’intelletto ha ordinato”.
Per tale insieme di attributi taluni hanno manifestato la tendenza ad assimilare il Nous al Dio personale delle religioni monoteistiche. Anassagora ha certamente un’intuizione alta del principio primo del divenire e dell’ordine, ma tale che non giunge al concetto del Dio persona e ciò per tre motivi: il Nous non è persona; non è puro spirito; non è libero in quanto presiede all’ordine del cosmo ma non ne è il creatore.
Sia Platone che Aristotele riconoscono ad Anassagora il merito di avere introdotto il Nous nella sua spiegazione del cosmo, ma al tempo stesso gli rimproverano di averlo lasciato inoperoso per non aver dato uno scopo al suo agire. Per poter agire in vista di un fine il Nous dovrebbe già avere l’idea del cosmo, ma per tutti i greci il pensiero riflette l’essere, non lo crea, e l’idea del cosmo non può sorgere se non quando esso già sussista. Il Nous anassagoreo non può prevedere, conoscere e ordinare ciò che ancora non è nato, bensì solo in seguito. Inoltre, in dipendenza della tesi del tutto in tutto, benché in varie proporzioni i semi rimangono pur sempre mescolati gli uni con gli altri, perciò la loro separazione dal caos primordiale non può definirsi ordinatamente compiuta. Neppure l’immaterialità del Nous è da ritenersi assoluta bensì relativa, permanendo in esso, come dallo stesso Anassagora in prosieguo asserito, un residuo materiale seppur di sostanza sottilissima. Nonostante l’entusiasmo di Anassagora, gli attributi da lui assegnati al Nous, in funzione di una piena immaterialità e finalismo metafisici, sono quindi suscettibili di ridimensionamento. Del resto, la distinzione tra materia e spirito, tra materiale e immateriale, è categoria che, fino ad allora, cadeva al di fuori dell’orizzonte mentale di Anassagora come di tutti i primi filosofi. Invero il Nous, confinato in una potestà unicamente ordinatrice, ha preminente valenza logico-gnoseologica più che di superiore causa efficiente e finale sul mondo. Nondimeno, per la prima volta è apparsa con Anassagora la teoria di una mente ordinatrice operante nel mondo.
LEUCIPPO, DEMOCRITO E L’ATOMISMO
Fondatore dell’atomismo fu Leucippo di Mileto, di cui abbiamo però scarse notizie. Il più famoso esponente è stato Democrito, discepolo di Leucipo, nato ad Abdera intorno al 460 a.C. e morto intorno al 370 a.C. A Democrito sono attribuiti molti scritti, tra cui: La piccola cosmologia; Sulla natura; Sulle forme degli atomi.
L’atomismo rappresenta una delle più significative teorie della filosofia greca, di grande importanza storica. Di solito Democrito viene presentato come l’ultimo dei presocratici, ma in realtà è contemporaneo di Socrate e, in parte, anche di Platone. Tant’è che l’atomismo, pur essendo prevalentemente una dottrina sulla natura, si mostra aperto anche ai problemi della morale, della storia, del linguaggio, divenuti attuali con la filosofia socratico-platonica.
Intento di Democrito è di “salvare i fenomeni”, considerati realtà effettiva e niente affatto un’illusione come affermato da Parmenide. Salvare i fenomeni significa per Democrito salvare la molteplicità, il divenire, la scienza. Preservare i fenomeni era stata anche la preoccupazione di Anassagora ed Empedocle. Tuttavia, mentre per loro il mondo dei fenomeni non era tutto e perciò, per dar conto dell’intero, avevano introdotto nella loro visione del cosmo un’ulteriore componente (l’Amore e l’Odio in Empedocle ed il Nous in Anassagora), Democrito attribuisce al mondo fenomenico il carattere della totalità, escludendo qualsiasi ulteriore principio. La spiegazione del mondo va cercata dentro e non al di fuori di esso, negli elementi che lo costituiscono e non in principi trascendenti. Unica filosofia è pertanto la scienza dei fenomeni.
I fenomeni osservati dalla scienza sono i dati empirici percepiti dai sensi, concernenti oggetti materiali composti di numerosi elementi che possono essere più volte suddivisi. Ma il processo di divisione non può procedere all’infinito. Nel proposito di risolvere i paradossi di Zenone circa l’infinita divisibilità delle grandezze spaziali, Democrito distingue appropriatamente tra divisibilità matematica, che è effettivamente perseguibile all’infinito essendo il punto matematico privo di dimensioni, e divisibilità fisica, ove la divisibilità matematica non può essere accolta poiché i corpi fisici non sono divisibili all’infinito. Nel dividere un corpo in parti sempre più minuscole si giungerà necessariamente, ad un certo momento, ad una particella non ulteriormente divisibile: tale particella è l’atomo, così chiamato dall’omonima parola greca, che significa, appunto, ente non più divisibile. Non è concepibile, sostiene Democrito, una divisione all’infinito della realtà materiale perché altrimenti, seguitando a dividerla, essa si risolverebbe nel nulla, quindi dalla materia si passerebbe alla non materia, al niente, il che è assurdo: dal niente nulla può discendere, tanto meno i corpi materiali. Quella di atomo è un’idea cui Democrito, va rilevato, non perviene mediante la sperimentazione bensì attraverso una deduzione razionale.
In quanto particelle piccolissime di materia, gli atomi sono invisibili. Oltre che invisibili ed indivisibili, gli atomi sono infiniti come infinita è la varietà delle cose; sono inoltre eterni, ingenerati, immutabili, costituiti tutti dalla medesima sostanza, conservando in tal senso le proprietà dell’essere parmenideo. Sono privi di qualità sensibili (colori, suoni, sapori, che sono solo apparenze). Si differenziano tuttavia tra loro per forma, grandezza e posizione, ovvero per sole caratteristiche quantitative. Traspare quella distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie dei corpi che sarà poi ripresa da Galileo e da Locke.
Se da un lato gli atomi, in forza dei loro attributi, possiedono le qualità dell’immutabilità ed eternità dell’essere di Parmenide, dall’altro presuppongono anche il non essere, inteso peraltro non già come il contrario dell’essere ma come vuoto, ossia come mancanza di atomi, mancanza di materia. Il vuoto è condizione necessaria al movimento degli atomi nonché alla spiegazione del divenire. Anche lo spazio vuoto viene dedotto razionalmente: se c’è movimento deve esserci necessariamente il vuoto: essendo gli atomi pensati come materia piena, deriva la necessità di presupporre tra essi spazi vuoti posto che, altrimenti, non avrebbero campo per muoversi.
Le cose, i corpi, sorgono e scompaiono per incessanti aggregazioni e disaggregazioni di atomi; da ciò il divenire attestato dall’esperienza. All’origine della formazione del cosmo è postulato un movimento vorticoso, a causa del quale gli atomi più pesanti tendono a riunirsi nel centro e i più leggeri a salire verso l’alto. In tal modo una massa atomica centrale ha dato luogo alla terra e una massa periferica ha dato origine agli altri elementi.
Per l’ininterrotto aggregarsi e disgregarsi degli atomi, nella realtà nulla si crea e nulla si distrugge: ab aeterno c’è la materia, il vuoto e il moto. La necessità meccanica domina ogni combinazione di atomi e non esiste altro rapporto che quello di causa ed effetto prodotto dal moto e dagli urti atomici. Inammissibili sono la disposizione finalistica e l’azione dinamica a distanza. Siamo di fronte alla prima onnicomprensiva interpretazione della natura secondo una concezione materialista e meccanicista della realtà.
Anche l’anima e la mente sono costituite da atomi materiali, leggeri e sottili, di natura ignea simile al fuoco. L’anima è diffusa in tutto il corpo e alla morte del corpo anche l’anima si disgrega. La conoscenza avviene in primo luogo, asserisce Democrito, mediante ricezione da parte degli organi di senso degli atomi irradiati dai corpi con cui si entra in contatto. Le sensazioni prodotte dalle emanazioni provenienti dagli atomi che compongono gli oggetti esterni stimolano, corrispondentemente, gli atomi sensitivi corporei. Tuttavia, poiché non si entra in contatto diretto con le cose ma soltanto con le rispettive emanazioni atomiche, la sensazione non è in grado di superare l’apparenza sensibile; solo l’intelletto sa elaborare i concetti. Da ciò la distinzione, in Democrito, tra conoscenza sensoriale, che è oscura, e conoscenza intelligibile, che è determinata. È solo grazie a quest’ultima che ci è consentito di conoscere la struttura autentica della realtà e di coglierne la comune sostanza, consistente negli atomi e nelle loro leggi meccaniche di movimento.
Poiché gli atomi sono infiniti ed infinite sono le loro possibili combinazioni, sarebbe assurdo credere che esista un solo mondo nello spazio. Infiniti sono i mondi che perpetuamente nascono e muoiono ciclicamente.
Ciò detto, stante che all’epoca non era ancora maturata la distinzione tra livello materiale ed immateriale della realtà, invece ibridamente concepiti, occorre ben intendere il significato di atomo in Democrito, il quale nel parlarne usa frequentemente il termine “idea”, collegandosi quindi non tanto con la struttura materiale delle cose quanto con la loro rappresentazione ideale, ossia con la forma. Nella fase storica della lingua greca in cui Democrito si trova il termine “idea” ha il senso di visibile. Ma in che senso può dirsi visibile un corpuscolo impercettibile ai sensi quale è l’atomo? Come scrive V. E. Alfieri ( L’origine del concetto di atomo del pensiero greco, Firenze 1953), esso è visibile, evidentemente, solo alla vista dell’intelletto, cioè all’intelletto astratto, che parte dal visibile corporeo spingendosi oltre, dove i sensi non possono più arrivare e trovando, appunto, nella forma, nell’idea, il punto d’arresto. Forma che è il visibile geometrico, non trascendente, che si mostra all’intelletto per astrazione dal sensibile. Tale è l’idea o forma che può essere concepita da una filosofia materialistica che nega l’immateriale tranne il vuoto, il non essere di materia. Sicché, nell’atomismo democriteo, materiale e immateriale sono sullo stesso piano: sono l’essere e il non essere, i due inseparabili termini della dialettica del pensare, entrambi ammessi, a differenza dell’eleatismo, per poter dar ragione dell’esperienza.
Per altro verso, nonostante il materialismo e determinismo meccanicistico cui è ispirata la visione atomistica del mondo, la morale di Democrito ha un’impronta di sorprendente nobiltà e interiorità che sorge dal carattere comunque razionale della sua teoria materialistica. Egli ha elaborato un sistema di massime di elevato valore etico, volto ad innalzare la ragione a giudice e guida, deterministicamente non necessitata, dell’esistenza. Vi si accompagna anche una visione cosmopolita: “ogni paese della terra è aperto all’uomo saggio, perché la patria dell’animo virtuoso è l’intero universo”.
Dal punto di vista metafisico, ovviamente, non sono mancate critiche che imputano agli atomisti di aver fatto un passo indietro rispetto ad Anassagora per aver addotto, come unica ragione del divenire e dell’ordine del cosmo, non già un principio intelligibile come il Nous, ma soltanto gli atomi e il movimento. In un ruolo di mediazione è intervenuto Giovanni Reale che ha scritto: “La lucida e rigorosa deduzione del sistema atomistico, proprio nel tentativo di spiegare tutto solamente con due principi (atomi e movimento), fece chiaramente comprendere ciò che in quei principi mancava: si vide chiaramente che dal caos atomico e dal movimento caotico non era strutturalmente possibile che nascesse un cosmo se non si ammetteva anche l’intelligibile e l’intelligenza. Il merito di questa scoperta sarà di Platone: ma è certo che Platone poté affermare rigorosamente la necessità della causa teleologica proprio perché poté beneficiare della radicale esperienza riduttrice di Democrito”.
Condivisibili o meno che siano tali critiche, più unanime è il giudizio secondo cui la fisica atomistica si mostra, per l’impronta quantitativa, più aderente a quella moderna rispetto alla fisica qualitativa di Aristotele, che ha allontanato di secoli l’applicazione matematica allo studio dei fenomeni e alla loro misurazione. Che poi oltre alla quantità sia rilevante anche la qualità è un altro discorso.