La televisione rappresenta attualmente il mezzo di comunicazione di massa più diffuso in Italia. Sebbene il settore mass-mediatico stia assistendo dal 1975 ad una rivoluzione tecnica e di linguaggio con l’introduzione e la diffusione capillare delle nuove tecnologie nonchè di Internet, a tutt’oggi, la televisione è ancora il mezzo di comunicazione di massa più diffuso nel Bel Paese. Pertanto è ad esso che lo Stato deve sempre dare una certa attenzione politica e normativa affinchè siano rispettati, almeno a grandi linee, i criteri democratici sanciti dalla Costituzione.
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L’utilizzo degli impianti radiofonici prima e televisivi poi in Italia sono regolati fin dalle origini da un impianto giuridico-legale chiamato “Normativa sulla radiotelevisione terrestre italiana” che disciplina l’assegnazione delle assegna le frequenze dei canali nel territorio nazionale.
IL REGNO D’ITALIA E IL GOVERNO FASCISTA
Già nel 1910 il Regno d’Italia si riservava l’esercizio delle attività radiotelegrafiche e radioelettriche attraverso la legge n°395 del 30 giugno. Nel 1923 prima e nel 1924 poi, sarà il governo fascista a mettere mano al “diritto di trasmissione riservato allo Stato” che confermerà con maggior fermezza il ruolo padronale dello Stato attraverso la nascita del Ministero delle Comunicazioni, il quale, avrà il monopolio delle trasmissioni radiofoniche attraverso l’URI (Unione Radiofonica Italiana). Nel 1927 il Governo attua un maggiore controllo sulla programmazione e sull’assetto societario dell’URI e lo trasforma in EIAR (Ente italiano per audizioni radiofoniche) a cui affida le concessioni. Nasce anche il Comitato superiore di vigilanza del Ministero delle comunicazioni che accentra ulteriormente il controllo. Nel 1935 le competenze in materia passano al Ministero per la stampa e la propaganda che nel 1937 diventò Ministero per la Cultura Popolare che aveva lo scopo ufficiale di “educare le masse ai principi e ai valori fascisti” anche attraverso i mezzi di comunicazione di massa, la radio in primis.
1944 – LA NASCITA DELLA RAI
Il 3 settembre del 1943 l’Italia proclama la resa incondizionata agli Alleati e mentre alcune stazioni radio entrano sotto il controllo degli Alleati (Palermo, Napoli e Bari), l’EIAR rimane ancora l’organo di regime nella Repubblica Sociale Italiana (Salò). Nel frattempo, quando ancora era in piedi la Repubblica Sociale Italiana, nel 1944 l’EIAR viene riaperta sotto la nuova denominazione RAI (Radio Audizioni Italiane) e nel 1945, dopo che anche le stazioni dell’Italia settentrionale entrano sotto il controllo del Comitato di Liberazione Nazionale, tutto il sistema radiofonico nazionale viene riunificato sotto la Rai.
1954 – LA NASCITA DELLA TELEVISIONE
Il 2 giugno 1946 nasce la Repubblica Italiana e nel 1948 entra in vigore della Costituzione attraverso cui, lo Stato, continua a riservarsi il diritto dell’esercizio delle attività radiotelevisive. Dopo una lunga serie di sperimentazioni iniziate già venti anni prima, nel 1954 nasce la televisione italiana che mette in esercizio un servizio regolare di trasmissioni messo subito sotto il controllo della Rai.
La Rai aveva l’obbligo di sottoporre i piani di programmazione all’autorizzazione e si finanziava attraverso due canali: uno privato, con la trasmissione della pubblicità e uno pubblico, proveniente dalla sovvenzioni statali.
I PRIMI TENTATIVI DI FARE TELEVISIONE PRIVATA
Nel decennio 1956-1966 vi furono alcuni tentativi da parte di soggetti privati, hobbisti e aziende, di trasmettere programmi televisivi via cavo. Nel 1956 fu la società “II Tempo-T.V.” di Roma che fece richiesta al Ministero delle poste e delle telecomunicazioni per poter realizzare dei programmi televisivi propri; nel 1959 i fratelli Cordiglia di Torino, due hobbisti delle telecomunicazioni noti per essere riusciti ad ascoltare i segnali provenienti dai satelliti russi e americani (Sputnik 1 e 2; Explorer 1), crearono una propria rete televisiva via cavo; nel 1960 fu invece la “T1” di Milano che inoltrò la richiesta di trasmettere proprie iniziative televisive via cavo; infine, nel 1966 Telenapoli (Napoli) mise in onda alcune trasmissioni televisive via cavo, a cui si collegarono numerosi esercizi pubblici, che vennero utilizzate per trasmettere alcuni spot pubblicitari della Upim. Tutti questi tentativi vennero stoppati dopo pochi giorni di esercizio attraverso azioni legali da parte dello Stato che rivendicava, per motivi tecnici e costituzionali, il diritto esclusivo dell’esercizio di trasmissione radio-televisiva sul territorio nazionale.
LA SVOLTA LIBERALE: IL 1974
Se negli anni ’60 l’ipotesi di fare televisioni private in Italia era ancora affidata a deboli iniziative tecniche e legali, il 1970 fu l’anno della svolta liberale. Se infatti la Corte Costituzionale ancora ribadì che fosse lo Stato a detenere il diritto esclusivo di trasmissione radio-televisiva, si pose comunque in dubbio che l’assoggettamento statale, in atto fin dal 1910, non fosse più in linea con i principi costituzionali dell’articolo 21 che tutelava la libertà di manifestazione del pensiero e dell’articolo 41 che invece riguardava la libertà di iniziativa privata. Sulla scia di questo dibattito nacque così nel 1972 Telebiella che si propose sul mercato delle trasmissioni televisive via cavo su scala locale. L’iniziativa tuttavia venne bloccata l’anno dopo dal secondo governo Andreotti che, con apposto decreto, il D.P.R 29 marzo 1973, n. 156, mise fuori legge tutte le emittenti radio-televisive private. Nonostante ciò Telebiella proseguì le trasmissioni per un paio di mesi, fino a che il governo Andreotti la fece oscurare. La questione però non si risolse in un braccio di ferro tra libertà d’impresa e Stato, ma divenne di ribalta nazionale sullo sfondo della sempre più insistente cultura liberale che stava investendo il settore. Giunse così già nel 1974 l’apertura della Corte Costituzionale che, con la sentenza del 10 luglio 1974, la n. 225, dichiarò illegittimo il monopolio statale in ambito televisivo via cavo. Fu questa la prima svolta che dette il via libera alle emittenti che usassero tale modalità di trasmissione. La seconda avvenne invece nel 1976, con la sentenza n. 202 del 28 luglio, che dichiarava legittima la diffusione televisiva anche via etere seppur “di portata non eccedente all’ambito locale per un bacino massimo di 150 mila abitanti”. Su questa definizione di “ambito locale” il Parlamento tuttavia non chiarì il perimetro geografico, al punto che le emittenti potevano trasmettere nel raggio di un condominio, di una città o di una regione senza subire contestazioni di vincolo geografico. Ma fu questa “ambiguità ” mai risolta che dette il via alla nascita, tra il 1976 e il 1980, del fenomeno televisivo libero e privato italiano che portò ad avere oltre 1500 emittenti sul territorio nazionale alla fine del decennio.
LA RIVOLUZIONE TECNOLOGICA
A dare manforte al nuovo liberismo imprenditoriale in ambito televisivo fu, tra le altre cose, anche la rivoluzione tecnologica che investì sia la modalità di diffusione che la strumentazione necessaria per trasmettere un programma televisivo.
Sul versante della trasmissione, negli anni Settanta, vi furono la diffusione dei transistor e dei semiconduttori che ridussero le dimensioni e i costi degli apparati di ripresa e di emissione (Enrico Menduni. La rivoluzione delle tv libere. Cinema e televisione, gli anni Settanta). Nacque così la televisione a colori e si diffusero le telecamere portatili che per manovrarle non era più necessario lo stuolo di tecnici che gestiva le regie fisse degli anni ’60, ma bastavano due operatori: uno per tenerla in spalla e l’altro per guidare il primo negli spostamenti.
Nel campo della diffusione invece la trasmissione via etere, lasciò il posto a quella via cavo. La trasmissione via cavo avveniva per mezzo di cavi e consentiva la moltiplicazione dei canali televisivi disponibili; mentre quella via etere, avveniva attraverso l’aria con delle onde elettromagnetiche.
LA RIFORMA RAI DEL 1975
In questa girandola di trasformazioni tecnologiche (transistor e telecamere portatili), sociali (consumismo e libertà personali), economiche (libertà d’impresa) e costituzionali (apertura alla libertà d’iniziativa televisiva privata) la televisione di stato, la Rai, ebbe non poche difficoltà ad adeguarsi ai cambiamenti e a interpretarli. Sulla spinta di questi cambiamenti ci fu un primo, importante tentativo di ammodernamento prima di tutto attraverso un nuovo quadro legale, attraverso la Riforma Rai del 1975 (legge 14 aprile 1975, n. 103) che fu un provvedimento di rivisitazione delle norme preesistenti in materia di diffusione radiotelevisiva italiana.
DAL GOVERNO AL PARLAMENTO
Secondo la legge, il servizio pubblico televisivo doveva rispondere nei temi e nelle modalità di produzione a criteri di obiettività e indipendenza dei contenuti a prescindere dagli orientamenti politici, sociali e culturali dominanti nel paese. Per questo motivo il controllo della televisione di stato passò dalle mani del governo a quelle del parlamento, al fine di garantire un allentamento del giogo del potere politico dominante rappresentato dal governo e favorire un’interpretazione più aperta anche alle altre correnti politiche magari di minoranza. Nel frattempo fu però confermata l’esigenza di un monopolio di Stato sulle trasmissioni radiotelevisive sebbene esse potessero offrire spazio a sindacati, movimenti, enti o associazioni di varie estrazioni (confessioni religiose; gruppi politici; etnie).
Con la Riforma Rai del 1975 vi fu tra le altre cose anche la nascita della terza rete televisiva che ebbe in quel primo periodo di vita il compito di trasmettere i programmi televisivi autoprodotti dal Dipartimento Scuola Educazione (didattica e divulgazione scientifico-culturale).
LA LOTTIZZAZIONE RAI
Il passaggio del controllo della televisione di stato dal Governo al Parlamento portò, oltre che a un’apertura sul piano della liberalizzazione dei contenuti, al triste fenomeno della “Lottizzazione”, ovvero alla “spartizione” degli spazi televisivi tra i principali partiti politici di allora (Democrazia Cristiana, Partito Socialista e Partito Comunista). Tutto ciò sebbene il direttore generale della Rai Biagio Agnes cercò di attenuarne i rigidi effetti con l’invenzione della cosiddetta “zebratura“, ovvero nella mescolanza di produzioni di diverso orientamento anche all’interno delle stesse strutture e degli stessi canali.
LA PARENTESI CREATIVA (1975/1980)
Le conseguenze di questa gestione slegata dai primi lacci della censura politica e del bigottismo cattolico, sebbene non ritenute da tutti corrispondenti a criteri democratici ed egualitari come i propositi della legge aveva annunciato, furono di una produzione televisiva prolifica e creativa, alimentata anche dalla rivalità che le tre reti si erano inevitabilmente create. Nel frattempo, nel 1977, la televisione di stato introdusse la trasmissione a colori della propria programmazione consentendo un ulteriore ampliamento della produzione creativa. Questa spinta innovatrice, secondo i più critici detrattori della liberalizzazione televisiva, si arrestò con l’ingresso della televisione berlusconiana come unica emittente privata concorrente.
LA LEGGE MAMMÌ
La seconda tappa della riforma televisiva italiana avvenne quindici anni dopo con la cosiddetta “Legge Mammì” del 6 agosto 1990.
L’obiettivo della norma fu quello di dare corpo legale al pluralismo televisivo in Italia ormai affollato di tante iniziative locali e nazionali, a cui potevano partecipare soggetti pubblici e privati nel quadro della libertà di manifestazione del pensiero e di iniziativa economico-imprenditoriale.
Sul tema, già nel 1985, si era espressa la Corte Costituzionale che con la sentenza n. 826/88 descriveva la “possibilità di ingresso, nell’ambito dell’emittenza pubblica e di quella privata, di quante più voci consentano i mezzi tecnici, con la concreta libertà nell’emittenza privata che i soggetti portatori di opinioni diverse possano esprimersi senza il pericolo di essere emarginati a causa dei processi di concentrazione delle risorse tecniche ed economiche nelle mani di uno o pochi”.
LE CRITICHE ALLA LEGGE MAMMÌ
Secondo gli osservatori più critici la legge Mammì non portò ad un’equa liberalizzazione delle licenze televisive nazionali, ma fu un rinforzo alla posizione di quasi monopolio del settore televisivo privato della holding berlusconiana “Fininvest”. La legge Mammì fu per questo denominata sarcasticamente anche “Legge Polaroid” perchè fu emanata sulla scia della pronuncia di incostituzionalità del primo decreto Berlusconi (1984, Governo Craxi) che permetteva alla Fininvest di trasmettere su tutto il territorio nazionale attraverso un consorzio di televisioni locali (meccanismo delle syndication) e si limitò a legittimare il duopolio Rai-Fininvest senza l’ingresso in egual misura di altre emittenti private.
Autore dell’articolo: Pierpaolo Spanu