In Sardegna i pastori di Villagrande e Arzana sono tra i pochi che ancora oggi svolgono l’antica pratica della transumanza.
Nel resto dell’isola, con l’avvento dell’allevamento intensivo, l’introduzione dei sistemi di conservazione dei prodotti e il ricovero in stalle climatizzate, questa pratica secolare è quasi del tutto scomparsa: si svolgono al massimo dei trasferimenti di bestiame tra terreni distanti dieci o quindici chilometri.
Anche nella penisola italiana la transumanza, un tempo diffusissima lungo tutto lo stivale, attualmente si svolge solo in alcune località degli Appennini centro meridionali (il Tavoliere d’Abruzzo e il Molise) e Alpine e Prealpine: Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Svizzera Italiana, Altopiano di Asiago, Lessinia, Trentino e Alto Adige. In Val Sanales (Alto Adige) esiste invece il più antico cammino di transumanza d’Europa che risalirebbe alla preistoria.
Sa tramuda
In Sardegna la transumanza si chiama “tramuda” e la sua origine si collega alle abitudini seminomadi delle popolazioni neolitiche (6000 a.C.). Con la civiltà nuragica (1800-238 a.C.) la transumanza si evolvette nella creazione delle aree di sosta che si trasformarono, talvolta, nelle prime aree stanziali: i villaggi.
L’andala
La transumanza (dal latino “transumere”, cioè “trasportare”) era il trasferimento a cadenza stagionale di greggi (200 o 300 capi) dalle zone collinari e montane a quelle di pianura e vicine al mare. Il trasferimento avveniva seguendo il percorso del “tratturo” (in lingua sarda si chiama “à ndala” o “caminu“), cioè il sentiero pietroso e in terra battuta che si originava spontaneamente dal calpestio degli animali o delle persone.
Transumanza e identità
L’importanza di questa pratica aveva dei risvolti economici che andavano oltre la evidente esigenza di trovare aree di pascolo migliori a seconda del periodo dell’anno.
La pastorizia e la transumanza pastorale sono state per secoli l’ossatura economica della Sardegna più arcaica e ha mantenuto alcune caratteristiche identiche dalla preistoria all’età contemporanea.
Conoscere il fenomeno della transumanza significa dunque farsi un’idea abbastanza attendibile di uno spaccato piuttosto esteso dell’identità della Sardegna.
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Il sale
La transumanza cominciava a settembre, quando si apriva la stagione fresca che anticipava quella fredda dell’inverno, e finiva a metà maggio. Gli animali venivano trasferiti a piedi dalle zone collinari o di montagna verso il mare o la pianura. Si individuavano preferibilmente vaste aree pianeggianti dove non insistevano pratiche agricole e dove i pascoli erano particolarmente ricchi di sale.
Questo composto era fondamentale per riequilibrare l’alimentazione delle pecore che in montagna era invece sciapa. I pascoli di fondo valle, specialmente quelli vicino al mare e ricavati nei calanchi, i solchi di erosione, profondi, stretti e separati da esili croste rocciose dove i terreni sono omogenei, impermeabili e facilmente disgregabili (argille, marne, ecc.), bagnati magari da acque meteoriche e da quelle scorrenti in superficie, usufruiscono della brezza marina proveniente dalle coste, e ciò, contribuisce a caratterizzare la flora di cui gli animali si cibano. Il risultato è che la salsedine e la salinità dei suoli determinano delle variazioni dello stato fisiologico delle erbe che, si ripercuote, per ricaduta, in tutta la filiera casearia, determinando una produzione di latte, la cui componente aromatica e nutrizionale, raggiunge il massimo livello rispetto al solo pascolo in montagna.
Il sale serviva insomma a migliorare la qualità del latte (indispensabile per produrre formaggio buono) e a mantenere viva la lana. Per soddisfare tali esigenze, i pastori sardi sceglievano soprattutto le pianure saline e paludose del Campidano, il Cagliaritano a Sud e l’Oristanese a Ovest; la Baronia e la Media Gallura a Est; la Nurra a Nord.
Dalle stazioni di posta agli abitati
Lungo le andalas (che i romani provarono a disciplinare con appositi regolamenti di transito) i pastori avevano bisogno di ricoveri per gli animali e aree di sosta per loro stessi. Durante la notte si camminava approfittando del fresco, mentre di giorno, dopo aver smerciato in qualche villaggio i prodotti delle trasformazioni (latte, formaggio, lana, pelle), si cercavano luoghi riparati dentro i boschi, vicino alle grotte o ai corsi d’acqua dove fermarsi per qualche ora.
In quei momenti si potevano svolgere i lavori più importanti della routine: s’improvvisavano recinti, si costruivano rifugi in pietra o in legno, si verificava lo stato di salute delle pecore in gravidanza, di quelle malate o a rischio infezioni, oppure si effettuavano le mungiture.
Per il pastore e il suo aiutante erano anche attimi di riposo per qualche ora di sonno o un pasto frugale a base di pane (pistoccu o carasau), di formaggio e, per i più fortunati, anche di lardo e un po’ di vino. In alcuni casi, specialmente nel Campidano, quelle stesse stazioni si trasformarono prima in accampamenti temporanei, poi in fattorie (epoca romana), quindi in piccoli villaggi, in cui, l’edificazione delle chiese fece da collante alla concentrazione di persone in un luogo fisico di transito. Dai villaggi, si passerà poi allo sviluppo di paesi molti dei quali sono del tutto scomparsi, ma altri sono ancora presenti sulla cartina geografica (Esterzili).
La rivalità con i contadini
La storia della transumanza anche in Sardegna ha risentito delle politiche territoriali attuate dai dominatori che si sono succeduti. E così, se i Cartaginesi (VI secolo a.C.) hanno da prima costretto i nuragici a trasferirsi negli altopiani e nelle alture del centro, l’arrivo dei Romani e il loro espansionismo agrario, portò alla prima convivenza forzata tra pastori e agricoltori.
Coesistenza che molto spesso si trasformava in conflitto da risolversi solo con l’intervento militare per contenere le ribellioni dei pastori indigeni che rivendicavano transiti e proprietà . Nella tavoletta bronzea di Esterzili (69d.C.), è riportato il resoconto di quando i Patulicenses, coloni campani, chiesero al senato di sedare le ribellioni dei Gallinenses i pastori sardi che si rifiutavano di rispettare il nuovo ordinamento il quale regolava la libera circolazione degli animali.
La transumanza in epoca romana entrò dunque in crisi e per rivederne la ripresa, bisognerà aspettare il periodo giudicale, quando, il controllo amministrativo dei territori fu allentato e i passi di montagna furono liberati dalle postazioni militari. Per i pastori erranti una tutela alle loro transumanze avvenne pure durante il feudalesimo: i signori si impossessarono delle terre espropriandole ai contadini locali.
L’Editto delle Chiudende
Occorrerà aspettare invece l’Editto delle Chiudende (1820) e l’Unità d’Italia (1821) per ritrovare i pastori costretti a limitare i loro spostamenti e infine, con l’abolizione del regime feudale (1836), ci fu la restituzione, anche in forma di assegnazione indebita, dei luoghi a chi voleva nuovamente coltivare la terra.
La transumanza rimase una pratica diffusa in tutta la Sardegna ancora fino agli anni ’70 del Novecento, prima di essere definitivamente soppiantata dall’industrializzazione del comparto.