Marilena e l’usurpatrice: la strada verso la casa
Ci sono storie di vita semplici e umili, prive di nomi, cognomi o indirizzi. Storie in cui esiste una sola via, quella percorsa fin dall’infanzia dalla protagonista: Marilena e l’usurpatrice, un racconto che si snoda lungo la strada verso la casa.
Questa strada è fatta di pietra, lastricata e ciottolata, irregolare e accidentata. Non ha barriere laterali né strisce pedonali: è un percorso essenziale, nudo, senza alcun artificio. Eppure è proprio lì che si riflette la forza della vita.
Al centro c’è una donna che, sin da bambina, non ha desiderato altro che trovare un luogo sicuro in cui vivere e attorno al quale costruire i propri immaginari. Una strada semplice, dura e autentica, che diventa simbolo del legame tra la memoria del passato e la ricerca di un futuro fatto di stabilità e radici.
L’involucro: casa ed endometrio come dimore della vita
Per Marilena M., 38 anni, nata a Cagliari, ciò che comunemente chiamiamo casa non è solo un’abitazione, ma un involucro, un endometrio simbolico dal quale ci si può allontanare, ma al quale si ritorna sempre, in un continuo viaggio a ritroso. La casa e l’endometrio diventano così due immagini parallele: luoghi di sicurezza e protezione, che accolgono e trasformano, tra albe e tramonti che colorano la tela dell’esistenza.
Se la casa è rifugio, una sorta di arca di Noè capace di proteggerci dalle tempeste della vita, l’endometrio è il suo corrispettivo organico: un involucro che ogni mese si rigenera, si gonfia e si sfalda, fino alla menopausa. È la dimora della femminilità, il luogo originario della fertilità, là dove tutto ha inizio.
Nella strada di Marilena, la ricerca della casa è inscindibile da questa metafora biologica. Entrambe rappresentano la condizione di una donna in continuo movimento, sospesa tra viaggi di andata e ritorno, tra radici e nuove partenze.
“Ogni trasloco da una casa all’altra – racconta – si trasformava in una carovana di oggetti e bagagli sempre più pesanti. Dentro non c’erano solo vestiti, giocattoli o stoviglie, ma anche gli odori e i sapori delle case lasciate, destinate a svanire nell’incuria del tempo o delle persone.”
- LEGGI ANCHE: Federica e il suo viaggio
Marilena e le case della memoria
Così inizia la storia di Marilena, la protagonista di questo racconto. Per lei ogni casa aveva un odore, un colore e un suono ben precisi: ognuna “sapeva” di qualcosa. Forse era solo una sua percezione, eppure sapeva distinguere i luoghi grazie a questi elementi sensoriali così personali, a volte sfuggenti ma fortemente radicati nella memoria.
La prima casa di cui conserva ricordo si trovava nel paese natale dei genitori, nel cuore del Campidano sardo. Era situata in una via stretta che terminava con una rampa di scale, le quali conducevano direttamente alla piazza della Chiesa principale. I rintocchi dell’orologio e il suono delle campane scandivano le sue giornate di bambina, mentre giocava con bambolotti di seconda mano, seduta nel sottoscala.
Quella casa aveva due piani e, agli occhi di una bambina, appariva immensa, con le sue mattonelle color mattone che sembravano non finire mai. Sul retro custodiva anche un piccolo giardino, dove cresceva un albero da frutto e dove viveva il cane di famiglia: un ricordo semplice ma prezioso, che per Marilena resta ancora oggi parte integrante del suo immaginario d’infanzia.
- Di Memorie Maestranze LEGGI ANCHE: Maribegna, la storia
La nuvola e il camino: ricordi d’infanzia di Marilena
Del piano superiore Marilena conserva ricordi sfocati, simili a una nuvola che muta forma a seconda dello sguardo. Ciò che invece resta vivido è il camino in cucina, bianco, non troppo grande, che spesso faceva i capricci riempiendo la stanza di fumo. La fuliggine grigia e il nero della brace ancora calda si imprimono nella memoria come dettagli sensoriali forti.
Gli spazi migliori della casa erano l’andito e il sottoscala, ampi e accoglienti. Marilena giocava quasi sempre lì, inventando mondi fantastici fatti di mamme e bambini obbedienti, scanditi da orari regolari. Nell’andito spiccavano alcune piante da interni, curate con dedizione dalla giovane madre per portare un tocco di verde e vitalità alle mattonelle opache.
Le giornate scorrevano lente, e la casa rifletteva la tranquillità del paese, piccolo e raccolto, dove la Chiesa principale era il cuore pulsante della comunità. Ogni ora il rintocco delle campane diffondeva suoni costanti, quasi un bando quotidiano che scandiva la vita dei circa 2.500 abitanti.
Marilena definisce quella prima dimora come la sua “Casa Mattone”: un luogo dal colore caldo, dalla superficie rugosa e porosa, simbolo di stabilità e pace, privo di scosse improvvise. Fu la casa della sua prima infanzia, in cui visse circa quattro anni, prima di trasferirsi in quella che sarebbe diventata la casa dell’adolescenza, della crescita e del cambiamento.

La piazza e il paese: il cuore della comunità
Tutto ruotava attorno alla piazza del paese: lì si svolgevano le feste patronali, le processioni, le ricorrenze estive, le manifestazioni e gli incontri quotidiani. Ogni evento era diretto come in un cortometraggio in cui l’imprevisto non trovava spazio, e il regista sembrava vivere proprio in quella chiesa, in quella piazza, in quei vicoli.
La casa di Marilena partecipava a quella regia come una comparsa, attrice inconsapevole. Marilena stessa si sentiva parte di quella scenografia, nascosta nel ventre della casa. Per lei i traslochi non erano decisioni della famiglia, ma della casa stessa: come se fosse la dimora a cacciare i suoi inquilini, a spingerli verso il cambiamento.
Marilena e l’usurpatrice: dalla Casa Mattone alla Casa Bianca
Del primo trasloco Marilena ricorda poco: i dettagli si perdono, come le foto dimenticate in un cassetto. Non rammenta l’istante in cui lasciò la Casa Mattone, né quello in cui entrò nella Casa Bianca. Forse perché aveva solo 3 o 4 anni, e a quell’età i ricordi sono labili e sfuggono tra le dita.
Sa solo che qualcosa mancava: il cane non era più presente. Quel cambiamento, seppur lieve, segnava l’inizio di un percorso in cui la Vita stessa l’avrebbe resa più forte, costruendole attorno una corazza necessaria ad affrontare le avversità.
Pozzi neri e corazza
La Vita prese l’indole fragile di Marilena e vi dipinse sopra un’immagine nuova, quella di una donna capace di resistere. Le diede una corazza: pesante, a volte insopportabile, ma utile a sopravvivere. Grazie a quella protezione, Marilena imparò a rialzarsi dai suoi pozzi neri, cronici e ricorrenti, e a indossare una maschera fatta di ironia e sarcasmo.
La Casa Bianca, un tempo caserma, si distingueva come un edificio maestoso con giardini di aranci, limoni, fichi e pergolati d’uva. Il bianco delle pareti contrastava con il verde rigoglioso, emanando una pace fredda, quasi metallica. Al piano inferiore restavano piccole celle con inferriate arrugginite: segni di un passato che non scompariva.

Momenti interminabili nella Casa Bianca
L’estate era il periodo più difficile da sopportare. La Casa Bianca diventava rovente e l’afa invadeva ogni stanza. Nei pomeriggi d’agosto, con 40 gradi all’ombra e nessun vento a rinfrescare, aprire le finestre era inutile. Così Marilena ricorda le giornate passate con le persiane chiuse, in attesa che la sera portasse un po’ d’aria fresca. Quelle ore lente sembravano non finire mai: momenti interminabili.
Eppure l’attesa aveva un sapore dolce, perché proiettava verso un miglioramento, un cambiamento positivo. L’attesa è sempre preludio di un passaggio: insegna, prepara, istruisce al cambiamento. E poiché la Vita intera è cambiamento, gli esseri umani vivono costantemente in una sorta di sala d’aspetto, pronti a varcare nuove soglie.
La Casa Bianca fu per Marilena la dimora più importante: vi trascorse i suoi anni migliori, dall’infanzia all’adolescenza, dai cinque ai vent’anni. Anni di crescita, di trasformazioni esteriori e interiori. La si potrebbe definire la “Casa del Mutamento”, ma lei preferisce chiamarla semplicemente Bianca, lasciando che il mutamento non sia una caratteristica di una sola casa, bensì una costante della vita intera.
In quella casa Marilena visse i ricordi più belli e le prove più dure. Fu lì che il suo cammino si intrecciò con la metafora dell’endometrio: un involucro alla ricerca di una dimora definitiva, un punto di riferimento a cui tornare. Perché senza una casa – reale o simbolica – la stessa esistenza rischierebbe di perdere significato.
Marilena e l’usurpatrice: l’endometrio
Per Marilena l’endometrio non è soltanto un termine medico, ma una vera e propria casa interiore, un involucro che accompagna la sua vita dall’età di 12 anni. Da quel primo incontro capì, anche senza conoscerne la natura, che la loro sarebbe stata una storia lunga e difficile, fatta di dolori, litigi e incomprensioni.
L’endometrio è un tessuto vitale, il rivestimento che protegge e nutre, la dimora della fertilità femminile. È qui che si genera la vita, è qui che si custodisce l’arte più grande: la capacità della donna di creare. Ogni mese questo tessuto diventa guardiano e custode, producendo ormoni e regolando un ciclo di continua attesa, creazione e distruzione. Un’opera potenziale che, se non si realizza, si sfalda, si autodistrugge, lasciando dolore e trasformazione.
Per Marilena, però, l’endometrio non ha mai rispettato regole né tempi. Arrivava in ritardo, si imponeva con forza, portando con sé dolori che molti minimizzavano come “normali”. Ma dentro di lei sapeva che non poteva essere normale: perché una funzione naturale doveva trasformarsi in un incubo ricorrente?
L’usurpatore dentro di lei
Ogni tentativo di fuga del suo endometrio era una pugnalata al ventre, un dolore lancinante che gli analgesici soffocavano senza risolvere. Così, silenzioso e ribelle, il tessuto cercava nuove case dentro il suo corpo, creando nidi estranei, terre non sue.
Col tempo Marilena ha compreso chi fosse davvero quell’usurpatore: l’endometrio che vagava alla ricerca di una dimora definitiva, provocando contrazioni, spasmi e congestioni. Oggi conosce meglio il suo corpo, sa quali accorgimenti adottare e affronta quel dolore condividendo con esso una casa fragile, ma reale.
Perché vedere e conoscere significa dare forma alle decisioni: solo ciò che ha un volto può essere affrontato. Se rimane invisibile, il rischio è che le fondamenta cedano improvvisamente, portando con sé il crollo di un’intera esistenza.
Marilena racconta la sua storia come un viaggio di resistenza e consapevolezza, in cui l’endometrio, pur doloroso e ribelle, diventa specchio della lotta per riconoscere e abitare la propria casa interiore.
Rita Coda Deiana
