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Home » Cultura » Lo sfruttamento coloniale della Sardegna

Lo sfruttamento coloniale della Sardegna

STORIA DELLA SARDEGNA

di Redazione
in Cultura
Tempo di lettura: 5 minuti
La Sardegna

La Sardegna, isola nell’isola, buona solo per essere sfruttata

Gli elementi naturali hanno da sempre condizionato le manifestazione culturali dell’uomo, orientandone le sue attività e conducendole, più o meno consapevolmente, a uno status in cui, il rapporto con l’ambiente è rimasto molto stretto. Il popolo dei Sardi, è uno di quelli in cui tale fenomenologia si è verificata con maggiore determinatezza.

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Quell’antica zolla in mezzo al mediterraneo, che i Greci assomigliarono a un piede umano (chiamarono la Sardegna “Sandalyon”, cioè “sandalo”) “ha prodotto una corrispondenza tra paesaggio e uomo, che ne ha contraddistinto il destino etnico e storico del popolo che da sempre l’ha abitata”. Una terra aspra, tormentata da vicende spesso infelici, i cui effetti sono ancora parte integrante dell’anima dei Sardi, un’anima antica che ha dovuto fare i conti con l’intemperanza del clima e i fattori naturali troppo spesso disordinati. Ecco allora il perché dei melanconici e ribelli silenzi del pastore sardo, della sua “reclusione ” talvolta spietata, nel suo lavoro con la terra naturale, una terra dalla geometria irregolare e incolta, estesa, dal respiro continentale ma al tempo stesso chiusa perché insulare.

LA GEOGRAFIA
L’isola è la seconda per superficie di quelle del Mediterraneo (24. 089 Kmq. contro i 25.711 kmq della Sicilia, la più grande) e si trova al centro del bacino occidentale. Dal punto di vista paesaggistico è una terra d’incontro tra la penisola italiana, quella iberica e il continente africano. Una mistura che non è passata inosservata a nessun popolo che l’abbia conosciuta, perché, a più riprese (compresa l’epoca contemporanea), ne ha rivestito un valore militare ed economico centrale per il controllo del mediterraneo. Ecco allora, il convergere di elementi culturali ed etnici diversi che si sono magicamente fusi nei sardi antichi, i nuragici, e gli esiti di questo processo sono oggetto di studio per l’etnografia europea, tanto che considera la Sardegna museo naturale di questa disciplina.

LA SARDEGNA: BUONA SOLO PER ESSERE COLONIZZATA
La Sardegna, assieme alla Corsica e alle Baleari, sono state sempre considerate le province più barbariche dell’Europa. Queste terre si crearono dei quadri chiusi che tagliarono fuori i popoli che le
abitavano dal circuito delle grandi civiltà , determinando un’originalità culturale a tratti pittoresca. Una chiusura già manifestata da ciò che si trovavano davanti gli antichi marinai grechi alla vista di questa terra: prevalenza di rocce e di alte scogliere, intervallate da spiagge orlate di dune e pochi porti, fra cui, solo quello di Cagliari era 8ed è) veramente naturale. Particolarmente difficile era il contatto tra indigeni e forestieri lungo la costa orientale (la porzione centro-meridionale del Golfo di Orosei era naturalmente inespugnabile) e così quella occidentale (i costoni di Cuglieri), mentre, l’incontro era più agevole dove si trovavano stagni, lagune e spazi pianeggianti (litorali di Nord e Sud). La limitatezza delle coste sarde ha contribuito a rendere assai modesta la vita marittima dei Sardi e ad accentuare l’isolamento naturale, respingendo i più importanti fenomeni di colonizzazione e popolamento che invece hanno caratterizzato la Sicilia e l’Italia meridionale (l’antica Magna Grecia). La colonizzazione della Sardegna ebbe dunque, già in epoca antica, solo un carattere di sfruttamento e di dominio politico – militare, senza effetti trasformativi e migliorativi a livello antropico ed etico – etnico.

L’ISOLAMENTO IMPOSTO DALL’AMBIENTE
All’isolamento esterno si aggiunse quello interno determinato dalla morfologia del paesaggio dell’Isola. Questa zolla di terra è infatti caratterizzata per la presenza di una quindicina di antichi massicci, come il Limbara, il Mà rghine, il Monte Ferru e soprattutto il Gennargentu, tutti separati da altopiani o da pianure e isolati da ripide valli, corrispondenti a linee di frattura di origine tettonica. “Una cesellatura morfologica che obbliga a una spiccata attitudine a favorire lo sviluppo di quadri culturali chiusi, di isole antropiche di minuscole entità , di unità etniche dal carattere cantonale, circoscritto nell’ambito di regioni geografiche in miniatura”.

LA FACILITÀ DI CONQUISTA STRANIERA DOVUTA ALLA DIVISIONE DELLE POPOLAZIONI LOCALI
La storia della Sardegna e le sue genti limitarono dunque il loro mondo e le loro conoscenze “alla minuta cerchia geografica di poche miglia quadrate vedendo nel rilievo montuoso fronteggiante a minima distanza o nel solco vallivo talvolta percorso da un misero fiumiciattolo, una sorta di frontiera, fra stato e stato”. Questo determinò una molteplicità di aspetti culturali, evidente oggi nella difficoltà a riconoscere somiglianze tra parlate locali anche di centri abitati non più lontani di 20 chilometri. Ciascuno operava in ambienti fuori di una visone organica e unitaria e ciò rese estremamente facile l’azione degli invasori in ogni tempo.

I PRENURAGICI SCELGONO LE VALLI, POI L’ISOLAMENTO MONTANO
La morfologia della Sardegna condizionò anche il carattere etico fondamentale dei suoi abitanti, tendenti all’isolazionismo e all’individualismo di gruppo. Così, se “le culture pre-nuragiche prediligevano i ripiani alluvionali e i margini inferiori dei solchi vallivi dove scorrevano i corsi d’acqua o le grotte carsiche a non meno di 25 chilometri l’una dall’altra e in zone altimetriche non superiori ai 600 metri”; i nuragici invece furono i primi a subire il condizionamento morfologico dell’ambiente, scegliendo di vivere sfruttando l’elevazione, la distanza dal mare, le vaste superfici, i loro frastagli e ovunque fosse possibile avere il dominio e la visuale, oppure la posizione soleggiata, la roccia copiosa e buona da lavorarsi, “orientando l’attività , i modi di vita e i pensieri dei loro costruttori”. In quel paesaggio l’attitudine all’isolamento etnico dei guerrieri e dei pastori nuragici trovava l’ambiente più proprio e congeniale. Le valli, invece, raramente costituivano luogo di scelta; e così anche i corsi d’acqua vennero scartati perché considerati ambienti ostili. Quest’ultimo fenomeno emerge anche nel linguaggio odierno, dove i fiumi “non hanno mai un nome unitario e segnano, col frazionamento delle denominazione, il fenomeno di compartimentazione e di limitatezza di conoscenza e di isolamento antropico”.

LA PASTORIZIA L’UNICA SUSSISTENZA
“Una terra con il 60 % di terreni impermeabili, facilmente dilavabili dalle acque scarse e saltuarie con la stragrande maggioranza dei suoli favorevoli all’erba o alla macchia, con la metà del territorio costituito da pascoli bradi permanentemente battuti da venti selvaggi, ha obbligato l’uomo ad orientare la sua risorsa di sussistenza soprattutto nella pastorizia, e di conseguenza aver attivato, con tutte le remore dell’isolamento, una civiltà pastorale che per vocazione è civiltà bellicosa”. Di contro, la civiltà agricola, rimase marginale e non fu la feconda progenitrice delle civiltà urbane che invece divenne in altre parti d’Italia e del continente europeo o “che fu vanto delle grandi civiltà orientali pre – greche e che sono testimonianza del valore umano dei popoli più civili dell’antico Mediterraneo”.
La grande varietà di pascoli, invece, favorì i fenomeni di transumanza delle greggi ed il nomadismo pastorale, e ciò fu alla base della “diffusione regionale dei nuragici anche nelle zone più remote dove gli agricoltori non sarebbero mai penetrati; a creare, con i loro spostamenti ed il successivo fissarsi sulla terra, i pochi e limitati fenomeni di colonizzazione interna di territori disabitati e incolti dell’isola”.

FONTE: La Civiltà dei Sardi, Giovanni Lilliu

Tag: CulturaGeografia della SardegnaStoria dei sardi
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